venerdì 13 dicembre 2013

Ma Sofia lo sa cos’è la Customer Satisfaction?


Deve essere il freddo, oppure un virus che mi si è attaccato. Chissà. Fatto sta che mi ronza nelle orecchie un’espressione: diavolerie elettroniche. Questo è la telefonia. Questo sono i cellulari, i PC, i tablet. Le reti wireless.
Per conseguenza logica, ne discende che i loro gestori o venditori (anche quelli online) sono diavoli. Che in quanto tali, seguono parametri di comportamento spregiudicati, manipolatori, unilaterali. Alla faccia degli utenti (o dei dannati, fate voi). Altro che Customer Satisfaction.

Scusatemi il paragone, o la metafora forte. L’ho sparata grossa, e lo so. Questo evidenzia il mio grado di esasperazione. Solo pochi giorni fa, problemi con la rete wireless. Adesso: problemi con un cellulare (uno smartphone, per la precisione: siamo moderni, e che cavolo). Garantito in 2-4 giorni dall’ordine (online), a distanza di 20 è sempre nell’etere; oppure all’inferno, non so.

Ancora una volta, c’è di mezzo un Call Center. Un Customer Care. Il quale, nella persona di Sofia, risponde punto per punto alle mie mail di protesta e richiesta di informazioni.
E qui sta il primo punto dolente: sul sito, che ho controllato all’atto dell’ordine, si dichiarava che in Dicembre sarebbe stato disponibile un Call Center telefonico; invece, approfondendo a causa di quanto sopra, scopro che il Call Center telefonico sarà disponibile a fine Dicembre. Insomma, a Natale schivato. Per adesso, si può interagire (protestare) soltanto via mail, e attenzione a riportare il numero di ticket nell’oggetto, altrimenti non rispondono.

Sofia mi scrive lunghe risposte in un curioso Italiano fiorito, piene di argomentazioni. Che di volta in volta cambiano.

Le prime volte, la questione erano i controlli qualità: “per noi è estremamente importante che i prodotti inviati al Cliente siano controllati con accuratezza, e di questo anche lei, in quanto Cliente, dovrebbe essere soddisfatta”. Non ho perso tempo a dirle cosa ne penso, dei loro controlli qualità, intesi in questo senso.
Tanto più che il punto non è affatto questo.

Successivamente, infatti, Sofia mi ha informato che era in fase di implementazione un nuovo sistema di gestione spedizioni, per cui si scusava moltissimo per i disagi che poteva avermi arrecato, ma erano purtroppo “fisiologici a fronte di un cambiamento così importante” che avrebbe sicuramente portato a “enormi vantaggi per il Cliente in termini di velocità di consegna”. Alla richiesta di una data previsionale, mi ha risposto che non era in grado di fornirmela, e che non sarebbe stato serio da parte sua comunicare altrimenti.

A fronte di ulteriori insistenze da parte mia, Sofia ha dichiarato che erano stati subissati da un numero di ordinativi altissimo, per cui avevano difficoltà a stare dietro alle scadenze. Forse – aggiungo io – la prima affermazione che corrisponde a un minimo di verità. La promozione e il Natale potrebbero aver fatto sì che al venditore la situazione sia sfuggita di mano, e che le consegne ne risentano. Peraltro, un classico del non-leveling in termini Lean (‘MURA’ again - processare i picchi).
Ho vissuto da vicino un fenomeno del genere in un’Azienda con cui ho avuto modo di collaborare. Un’esperienza che non mi conforta affatto. In quel caso, i ritardi di consegna erano legati al fatto che, pur di prendere l’ordine, venivano regolarmente promesse scadenze non rispettabili; per non parlare dei cospicui controlli qualità in uscita, con cui il processo veniva ulteriormente rallentato. Giova notare che erano questi, i controlli, a saltare alla bisogna, al fine di soddisfare un Cliente particolarmente agguerrito che batteva i pugni sul tavolo e faceva la voce grossa. Al fine di tacitarlo, dico io; di dargli il contentino: almeno fino al reclamo.

A un’ultima richiesta di una data previsionale, Sofia mi ha ripetuto di non essere in grado di fornirmela, ma ha anche sottolineato di riconoscere che non era stata corretta e professionale con me, in quanto mi aveva tenuto a lungo in sospeso con la questione della data, e ciò non va bene per niente. Cospargendosi il capo di cenere, faceva ammenda; non per questo, comunque, mi comunicava una data di consegna, non per questo, ad ora, una data di consegna mi è stata comunicata.

E qui mi fermo. 
Perché mi viene da ridere. O da piangere.
Povera Sofia!, sempre ammesso che una Sofia esista, e che non si tratti di un Ermanno nerboruto, o di un Ermanno, un Davide e una Tamara che a turno prendono e rispondono come gli viene, come gli va, come gli gira.
Povera Sofia!, voglio ripetere. Ma che fai, ti prendi pure tutta la colpa? Tu, che spendi comunque del tempo a formulare motivazioni così articolate, frasi tanto fiorite, che c’entri tu con la durezza dei diavoli presso i quali presti servizio?
Stai serena, Sofia, e accetta la tua sorte di water spider (o water strider, i Lean Pratictioners mi capiranno J) che sta sott’acqua a dirimere le controversie nella melma; oppure veleggia ad altri lidi, libera le ali, saltane fuori come un rospo, una principessa in fieri che merita il bacio rivelatore del principe!
Io, Sofia, non ce l’ho con te; né con Ermanno, Davide, Tamara. E come potrei? Mi fate perfino tenerezza.

La questione è ancora quella: l’organizzazione. Le sue inefficienze clamorose. Il pallido e triste tentativo di farvi fronte con qualcuno che si cucini il Cliente in qualche modo, ovvero lo tenga fermo, lo blandisca, gli parli – e chi se ne frega di cosa poi gli dice.
Io non ce l’ho con Sofia, Ermanno, Davide o Tamara.
E guardo ai fatti.
Promesse rispettate? No.
Tentativo di recupero effettuato (da parte mia)? Sì, e più volte – scusatemi, io sono un 4% naturale (*).
Risultato ottenuto? No.
Conseguenza: passo al 96%. Senza rancore. Lupo dritto sulle zampe posteriori e pronto ad azzannare, mi tuffo: ordine annullato. Affare sfumato (per loro). E chi si è visto si è visto.
  

(*) Per chi avesse difficoltà a capire, non avendo letto il mio ultimo post, allego la slide di decodifica. Meditate gente, meditate!

domenica 1 dicembre 2013

Ma lo sanno gli Operatori Telefonici cos'è la Customer Satisfaction?


Ad avere a che fare con il Call Center del proprio Operatore Telefonico si impara molto in fatto di Customer Satisfaction. Ad aver tempo e voglia, o a essere pagati all'uopo, si potrebbe fare un bello studio di Process Re-engineering e distribuire i suggerimenti per il miglioramento agli interessati, con preghiera di implementazione immediata. 
Magari evidenziando le worst practices per il museo degli orrori (come monito). 

La telefonia adesso svolge una funzione essenziale alla sopravvivenza: sei vivo se funziona, sei morto se è KO (di fatto, in un PUFF! scompari: via la voce, via la penna, via la faccia se pratichi Skype). Quindi, se hai problemi con la telefonia, può capitare che al Call Center tu ti attacchi come a un medico: in senso letterale, sapendo che solo grazie a chi vi opera puoi ritornare in vita (e PUFF! ricomparire). Consapevole tuttavia che non sarà facile. 
Molto più spesso però capita che tu getti la spugna: non sono io a dirlo, ma una ricerca ISO. Secondo la quale, il 96% dei clienti insoddisfatti non perde tempo a protestare. In modo pragmatico, si eclissa e va altrove. Ma prima ne parla e si sfoga; ed ecco che la reputazione di colui che ha causato il problema fa un bel tuffo carpiato nel mare, giù, profondo. 
E chi si è visto si è visto.

Questo è un dato che gli Operatori Telefonici dovrebbero tenere ben presente. Specialmente in un’epoca come questa, in cui le persone hanno pochi soldi da spendere e le alternative certo non mancano, in giro: più o meno le tariffe sono dappertutto simili, a surfare dall’uno all’altro davvero ci si impiega un attimo.
Per cui può anche insistere, il Call Center dell'Operatore, a cucinare il 4% dei delusi che vi ricorrono: nel migliore dei casi, il 96% sarà definitivamente andato. E soprattutto, i loro capi dovrebbero ben pensare a non farli accadere, i problemi: quando i buoi sono scappati è inutile chiudere la porta, e non c'è Call Center che tenga.

Si tratta di una questione di consapevolezza. Evidentemente poco diffusa. 
In un’azienda con cui ho avuto occasione di collaborare, mi veniva comunicato forte e chiaro che la cosa veramente importante, non è evitare di causare problemi al Cliente, quanto invece risolverglieli: bene, velocemente, possibilmente con un piccolo gift compensatorio. L’accento veniva posto sul servizio al Cliente: postumo, però. Ma le coccole postume nessun Cliente se le beve: certi danni, certi disservizi non hanno prezzo. 
Ma hanno un costo (anche in termini di mal di fegato): che nessuno riconosce al Cliente. 

Prendiamo il caso classico: lo yogurt. Se, di ritorno dal supermercato, te ne trovi nella borsa della spesa un vasetto scaduto, certo non sei contento. Come minimo, ti tocca tornare indietro a fartene dare uno in data di validità, e attenzione allo scontrino, che se per caso l’hai buttato non hai diritto a nessun rimpiazzo. Un’attività costosa (in termini di tempo, in termini di soldi), che non verrà in alcun modo rimborsata.

Prendiamo il caso mio in questione: la rete wireless (di un certo Operatore Telefonico) funzionante a singhiozzo. Se, mettendoti a lavorare la mattina presto, la rete non c'è; oppure il segnale di rete c'è, ma è inutile, perchè tanto è come se non ci fosse, allora tu non riesci a lavorare, potenzialmente non soddisfi i Clienti tuoi mancando alle promesse che hai fatto, e inoltre sei costretto a tutta una serie di manovre di ripiego (es.operare su iPad con scheda SIM) che sono di fatto extra ciclo costosi. Come dire: tu hai un Takt da rispettare, e la macchina si inceppa. 
Non va affatto bene.
Se, come me, di natura appartieni al 4%, ti metti al telefono con il Call Center del suddetto Operatore: gli addetti, consapevoli del problema (non sei il primo a farglielo presente) ma impotenti rispetto allo stesso, continuano a rassicurarti che Giovedì (o Martedì, dipende) tutto sarà risolto. Al permanere del problema tu insisti a telefonare e provi anche a far la voce grossa; ma all'altro capo del filo c'è chi certo non resta supino a farsele dire, corrazzato dall'esperienza, e allora, onde evitare discussioni senza frutto, l'abbozzi e un po' bruscamente chiudi la comunicazione. Alla 1000 telefonata, noi 4% naturali riceviamo una gradita sorpresa però; probabilmente al Call Center hanno un contatore, non so, fatto sta che ti regalano, senza che tu lo chieda, addirittura un mese di abbonamento per scusarsi del disservizio. Tu non fai in tempo a diventare felice, che ti arriva la sassata: il problema non è risolto, però. Non ancora, ci vuole soltanto un po' di pazienza: ma lo sarà Giovedì (o Martedì, dipende).
Ecco, questo è il momento in cui il 4% D.O.C. si trasforma. Dall'agnello sorge di petto il lupo, ritto sulle zampe posteriori a reclamare vendetta. Il lupo non perde tempo in chiacchiere, annusa e colpisce: la sopravvivenza è la sua dottrina. 
Ed è per sopravvivere - come dicevo prima - che il 4% naturale fa le sue mosse. Decidendo per il gran salto. In un attimo, si fa lupo, e passa al branco del 96% .
La barca dell'Operatore è abbandonata al suo destino.
Non è più affar suo.

P.S.: ci tengo a dirlo. Non  ce l'ho affatto con gli operatori del Call Center, che svolgono un lavoraccio, come tutti coloro che stanno in ambienti di confine e hanno funzione di cuscinetto fra le richieste esterne e le difficoltà interne  (difficilissimo il 'match'). In più, in presenza di Clienti irritati e nervosi. 
Come tutti, gli operatori dei Call Center si organizzano per la sopravvivenza. Conoscevo una tipa, anni fa, che aveva un fior di laurea in Matematica (non so se mi spiego) e un cervello sui generis (tutto particolare), che per una serie di ragioni lavorava in un Call Center. Candidamente mi confessò che, a fronte di problemi noiosi o clienti troppo aggressivi, faceva cadere la linea; la probabilità che la telefonata ricapitasse a lei era minima. Probabilmente l'aveva pure calcolata. Oppure era l'esperienza sul campo a darle questa certezza.
Ciò per dire, che hai voglia di strutturare un Call Center con i fiocchi, tutto lustrini esterni e 'sono Marisa, come posso aiutarla?' di voce suadente e accattivante: il punto sono i problemi che tu causi. E' questo in nocciolo della questione. Bisogna capirlo. 


domenica 24 novembre 2013

Io guido da sola (a parte il cavallo)

Per il mondo dell'auto il momento è bigio. Il trend negativo del settore è condizionato dalla crisi: finchè non ne usciamo è magra.
Ma non per questo gli addetti ai lavori restano a guardare. Qualcosa bolle in pentola, è un fatto. Senza che quasi ce ne accorgiamo.

Ed è sempre lui, lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Che lavora da dentro, manifestandosi quando il lavoro è pronto, quando la crosta mantenutasi ben integra fino a quel momento ha da squarciarsi. Cosi', mentre andiamo avanti con la routine carburante-telepass-sgommata, ciò che noi ci aspettiamo da un'auto va cambiando. Ciò che vorremmo facesse. Il nostro ruolo nell'interazione con lei.
E bisogna farsene una ragione.

La funzione-core dell'auto è legata alla nostra necessità di essere mobili. L'auto deve trasportarci da un punto A a un punto B geograficamente distinti (su terraferma); velocemente, ed evitandoci la fatica fisica. Dobbiamo poterlo fare non appena ce n'è bisogno.
Ma la mia esperienza personale da guidatrice seriale mi porta ad affermare che l'auto assolve anche ad altre funzioni niente affatto peregrine. Soddisfa il nostro bisogno di libertà e divertimento, per esempio. Oppure ci facilita nella sperimentazione della nostra leadership, spingendoci a gare non necessarie nei rettilinei autostradali, a rombare minacciosi i motori al semaforo, a sfanalare a palla a chi civilmente aspetta in coda.
Un tempo queste stesse funzioni venivano svolte dal cavallo, con il quale le analogie che restano sono molte, a partire dalla necessità di riempirgli la pancia con un nutrimento che conferisca energia. Non a caso l'auto ha quattro ruote, come quattro sono le zampe del fiero animale simbolo di potenza ed eleganza. E se eccepite che la moto ancor più cavallo è, essendone riprova gli stessi motociclisti, comunemente chiamati centauri, non so darvi torto, dall'alto del mio scooter performante, con tanto di bande tricolori. Ma anche l'auto è cavallo, non c'è dubbio. Seppure meno snello, più comodo e di tipo cavo (si guida dal di dentro, non da sopra). E come per l'amazzone è vitale non essere in balìa del cavallo, ma dominarlo, così per il guidatore il controllo dell'auto è importante. Ai fini della propria incolumità, ma anche ai fini del piacere della guida  e della conferma della propria destrezza.
Di questo ho esperienza diretta; di questo sono convinta, con validità generale .

E qui sta il punto. Dovrei dire: ero convinta.
Perchè lo zeitgeist lavora da dentro, e mentre noi ci culliamo sulle nostre convinzioni, zitto zitto ridipinge lo scenario. E quindi, scusatemi: mi sbagliavo (va bene così?).
Altro non posso dire, se faccio mente locale all'auto che si guida da sola. Sono stati i tecnici Mercedes Benz a darle vita (ma anche altri, zitti zitti, ci stavano lavorando).
L'occasione per mostrarcela, bell'e pronta, è stata la commemorazione di un 125° anniversario: quello del debutto in società dell'auto, per come adesso la conosciamo ed utilizziamo.
Era il 1888 quando Bertha Benz percorse la bellezza di 106 Km con una Patent-Motorwagen modello III progettata da Karl, il marito, andandosene da Mannheim a Pforzheim. Donna non da poco, Bertha, che coinvolse anche i due figli nello storico, rischioso viaggio, il primo - lungo - effettuato in auto,a comprovare che la si poteva considerare un mezzo di trasporto affidabile (quello che è oggi).
Lo scorso Agosto, la Mercedes Benz ha ripetuto lo storico viaggio,mutuandone le caratteristiche di battesimo del fuoco. Infatti, l'auto utilizzata si guida da sola, e da sola ha guidato per l'intero tragitto, con una sorta di pilota automatico. Si tratta di una versione upgrade della Classe S 500, ancora sperimentale, dotata di IntelligentDrive, ovvero di sensori e telecamere (occhi) in grado di apprezzare ogni movimento ed ostacolo intorno, e di reagire di conseguenza. Il viaggio si è svolto ignorando l'autostrada, su vie normali, con incroci, semafori, rotonde: ostacoli al fluido fluire, insomma. Affinchè il test fosse massimamente significativo.
Le tecnologie già ci sono. La strada è spianata. Ma il debutto commerciale è ancora vago: si parla del 2018 orientativamente, in dipendenza di fattori vari fra cui la concorrenza e l'interesse del mercato.

Mi sono interrogata sul senso e sulle ragioni di questa nuova concezione del rapporto uomo-auto. Per quanto ho abbondantemente descritto sopra, io che non riesco a digerire il cambio automatico e resto attaccata mani e piedi a quello manuale, non avrei mai pensato che questa potesse diventare una direzione di interesse. Ma mi sbagliavo. Il senso e la ragione evidentemente risiedono nel bisogno di sicurezza da parte dell'utente stradale. Bisogno che e' preponderante, e soppianta quelli sopra descritti.
In fondo, un'auto che si guida da sola somiglia a una specie di autobus che non fa fermate intermedie, e che non ha un autista in carne ed ossa. Un autobus di cui sei tu a stabilire gli orari, la fermata di partenza e quella di destinazione come meglio ti piace. Tu sali sopra, e poi fai i fatti tuoi fino a destinazione: leggi, lavori, telefoni, dormi, mangi e quant'altro. L'auto fa tutta la fatica per te (parcheggio incluso).
Di un'ovvia, travolgente comodità.

Quindi, tutto chiaro. Capitolo chiuso? No. Lo zeitgeist è sottocrosta ormai, sta lavorando sull'ultimo velo di spessore. Vuole un'eruzione da primato (si salvi chi può).
Altro non posso dire, se faccio mente locale a quel che la Toyota ha annunciato presenterà in anteprima mondiale al motor Show di Tokio (che inizierà a giorni).
Il nuovo FV2 Concept car: un veicolo monoposto addirittura senza volante, a metà tra auto e moto, per il quale il richiamo al cavallo è esplicito.
 
Le ruote, ancora una volta, sono quattro, come le zampe. E del volante non c'è bisogno perchè la guida è consentita grazie al movimento del corpo: spostando il proprio peso da una parte all'altra, infatti, il guidatore indicherà al mezzo la direzione da seguire. Ma non basta. Il FV2 Concept è dotato di sofisticati, futuribili sistemi di riconoscimento vocale e facciale in grado di catturare lo stato emotivo del guidatore, raccogliere dati sul suo umore e reazioni, e indurre il veicolo a comportamenti conseguenti: a tutti gli effetti, un accurato e sensibile co-pilota, che peraltro si perfeziona con l'uso e con il tempo, aderendo sempre più alla personalità di chi lo cavalca.
Non è questo un veicolo nato dal gioco di una serata bizzarra, o da una birra di troppo davanti al pachinko. Si colloca infatti all'interno del Toyota Heart Project, e rientra nella filosofia 'fun to drive'; un progetto cui la nota Casa crede profondamente, con cui intende contribuire al ridisegno del concetto di automobile, e che costituisce la traccia della sua strategia a lungo termine. L'intenzione è quella di trovare soluzioni per un oggetto e un mercato che affrontano oggi una crisi senza precedenti, e che entro i prossimi 25 anni (come sostiene l'autorevole società IHS Automotive) dovranno conformarsi alla necessità di un ambiente pulito, essere poco ingombranti, non ingolfare più i centri urbani, e costare poco.

A questo punto, pero', io mi fermo e rifletto. Perchè qualcosa non torna. Se pensiamo all'auto che si guida da sola e poi al FV2 Concept, la contraddizione stride. Ma scusate, da un lato si toglie del tutto al guidatore la possibilità di ogni interazione con il veicolo, che opera in completa autonomia e in modo asettico, e dall'altro addirittura si fondono guidatore e veicolo, affinchè il controllo sia esercitato in modo corporeo, viscerale, continuo?
Sembra che lo zeitgeist si sia fatto una birra di troppo, davanti a quel pachinko.
Eppure non e' cosi'. Per me (apro le porte al vento della fantasia) una spiegazione c'e'. Che comporta l'introduzione dei concetti di mobilità per dovere e mobilità per piacere.

Molti di coloro che intasano le strade e autostrade guidano per dovere. Se ne vanno in giro per lavoro o per necessità. Si scapicollano, sgomitano di continuo per farsi strada in mezzo agli altri. Per arrivar presto, per sfogare rabbia-tensione-concentrazione, perchè il pedale quando è giù, giù deve restare (e che cavolo). Perche' queste persone continuano ad intasare le strade? Perche' non esistono - a loro giudizio - mezzi di trasporto equivalenti all'auto. Ed hanno ragione: i treni portano da stazione a stazione, non per esempio nei punti decentrati in cui le Aziende hanno il vizio di cacciare le proprie attivita' produttive; per gli aerei e' pure peggio, per non parlare di filobus e corriere. Impensabile far a meno dell'auto. Questi signori, sono tipi da auto che si guida da sola. Spingendo il bottone giusto si tolgono da ogni impiccio. Respirano.

Ma poi resta la necessità della guida per piacere, e allora il discorso cambia totalmente. A questo la Toyota sicuramente pensa, con la sua filosofia 'drive for fun'. E a guidatori per piacere sono destinati i suoi avveniristici prodotti, creati con l'esplicita intenzione di deliziarli. Veloci guizzare da un punto all'altro dell'orizzonte, godendosi la sensazione della propria potenza e libertà: questo, è guidare per piacere. Si impone piuttosto la riflessione sul modo in cui costoro potranno esercitare il loro diritto al divertimento. Su piste e circuiti dedicati, come no; ma anche nelle strade usuali, che diventeranno sempre più sicure grazie all'impiego dell'auto che si guida da sola, e anche alle iniziative in favore della sicurezza che da più parti si stanno intraprendendo (vedi per esempio il progetto di ricerca europeo 2BESAFE, cui partecipano Aziende, Enti e Università - in prima linea quella di Firenze).
Per chi vuole, il piacere della guida deve restare.
E resterà. Questa è la mia opinione.
Parola di lupetto.

sabato 9 novembre 2013

Spegnere, come una sigaretta ..


Di questi giorni, la notizia che a fine mese l'altoforno di Piombino, dove io ho lavorato per 5 bloody years, verrà spento. Una di quelle cose che ti buca il fegato, anche per motivi affettivi .
Il presidente della Regione Toscana è volato dalle alte sfere europee per vedere se riescono a riconvertirlo, e i 1500 lavoratori possono sperare.

Oggi è così. Molto più di ieri, le cose cambiano, mutano, si trasformano, si sconvolgono. Realtà vive da decenni, che costituiscono l'ossatura di un'intera cultura, si spazzano via con poche ramazzate.
Serve, nel caso di Piombino, ricordare l'illustrissimo passato etrusco da cui la siderurgia ha preso le mosse? O sottolineare che Ilva era il nome latino dell'Isola D'Elba (proprio lì davanti), prima di diventare quello della grande azienda siderurgica a partecipazione statale che abbracciava tutta la Penisola, da Aosta a Taranto, passando per esempio da Bagnoli e Terni (oltre che per Piombino)?
Dal punto di vista pratico, no. Quel passato ormai si avvia a diventare remoto (se remoto non è già).
Alla faccia di chi ha impostato una vita al ritmo della turnazione continua - primo, secondo e notte, senza sabati e domeniche, senza feste.

L'unico dato certo è che le aziende sono mirate al profitto(*). Possono essere più o meno illuminate, ma questo è. E in questa logica, chiudono, aprono, comprano, abbandonano. Anche le migliori, le più sane, le più avvedute. Anche le best in class per metodologie, scrupolo, tecnologia, Lean, DFSS e Six Sigma e APQP e chi più ne ha più ne metta; che se fai un giro nel loro gemba neppure uno spillo fuori posto ci trovi, e magari ai dipendenti offrono pure un bel cappuccino con la timbratura (caffè qualità arabica).
Comunque sia, il cappuccino tocca a chi resta dentro (se qualcuno vi resta, e non si sbaracca tutto). A chi sta fuori, niente.

In un certo senso, nulla di male. Oppure no, fa male. Decidete voi. Ma in ogni caso, bisogna tenerlo a mente, bene in mente.
Il modo di fare lavoro è cambiato, sta cambiando, cambierà ancora. Verso quale direzione? Mah. Ognuno ha la propria visione (la sottoscritta non fa eccezione), molte collimano; certezze comunque non ce ne sono.

Continuo a pensare alla sostenibilità, e alle difficoltà enormi in merito nel caso di un'acciaieria, che è lavorazione intrinsecamente complessa - senza sparare sentenze o attaccarsi (sarebbe facile) al caso lampante di Taranto. Siamo tra le lavorazioni di base, ad alta complessità e basso valore aggiunto; cose che conviene far fare altrove, dove almeno i costi sono inferiori, e la complessità è gestita grazie a leggi e sensibilità sociale meno vincolanti. Guardando avanti, non so che futuro avrà il materiale acciaio nell'impiego industriale o in quello per oggetti; non so se e da cosa verrà sostituito, o se gli oggetti cambieranno in modo da non richiederne più (**). Però questo dico: spostare altrove, o lasciare che altrove si ponga il problema della sostenibilità, mi pare azione ben miope. Come se altrove le persone non avessero, di fatto, i nostri stessi diritti.
In primis quello alla salute, e al lavoro.
Non so che altro dire.

(*) Non tiro in ballo le realtà no-profit: non ne so abbastanza. 

(**) Nel settore dell'auto, l'acciaio è stato progressivamente sostituito da altri materiali di maggiore leggerezza e versatilità (Alluminio, plastica - per citare i più evidenti); le biciclette performanti sfoggiano leghe in Titanio ed altre diavolerie. Questi sono i primi esempi che mi vengono in mente. Ma l'innovazione continua a puntare su materiali nuovi, e su nuovi modi di ottenere le 'caratteristiche' necessarie alla 'funzionalità' dell'impiego (processi più economici, meno invasivi). Chissà cosa ci aspetta, dietro l'angolo; quali piccole o grandi rivoluzioni.

giovedì 31 ottobre 2013

Quando,di preciso,un prodotto è "di qualità"?


Bella domanda.
Mica facile.
La Qualità di un prodotto tende a restare una materia oscura. Ancora, dopo fiumi di inchiostro versato, e mantra dispiegati al vento.
Perchè rimane legata alla soggettività, e ciascuno ci mette del suo.
Per me, la miglior definizione è data da questa formula:

                                                      Q = P / E

essendo:
Q --> il grado di Qualità percepito in relazione a un certo prodotto
P --> le prestazioni di quel prodotto (PERFORMANCE)
E --> ciò che ci si aspetta dal prodotto in questione, appunto, in termini di performance (EXPECTATIONS)

Se è vero, come ci hanno insegnato, che la Qualità (di un prodotto) è legata anche alla sua "rispondenza all'uso", occorre innanzitutto definire quale ne è l'uso. Ovvero, quali sono le funzioni che ci aspettiamo da quel prodotto; che vogliamo, che sognamo. E poi: quanto bene dovrebbe svolgerle, queste funzioni, il prodotto? Capiamolo. E così è fatta: abbiamo definito le nostre aspettative. Sia P che E sono chiare, adesso; Q lo è di conseguenza (matematica docet)
Facile, vero? Anche no: troppo soggettivo. Dipende da come il prodotto viene percepito dal mercato. Mettiamo che il cliente A si aspetti una cosa, e il cliente B un'altra. La performance del prodotto una è; per cui magari A trova che il prodotto sia una figata, e B che non sia niente di speciale. Mentre il prodotto è lo stesso.
La questione si placa abbastanza se isoliamo a una fascia di clienti, intesi avere tutti le stesse aspettative. O aspettative simili. Perchè lo percepiscano di Qualità, il prodotto - di cui è chiara la E - deve avere una P con i controfiocchi, e che cavolo. Altrimenti è un prodotto di Qualità standard.

Eh, ma la qualità del prodotto bisogna costruirla. Mica viene da sè. Bisogna fare tutta una serie di cose, con qualità, per ottenere una Q=P/E che si rispetti.
E allora ci si rimboccano le maniche, si va di fabbricazione prodotto a disquisire, controllare, impostare: non si molla l'osso, pervicaci stiamo sul pezzo. Siamo persone serie, noi.

Raramente invece, chissà perchè, si associa la Qualità a ciò che sta a monte rispetto alla produzione; rispetto ai reclami del cliente, o all'iper-misurazione dei prodotti non conformi nella speranza che di un po' conformi, infine, se ne trovino.
Be', il passaggio non è proprio uno di quelli logici. Manca un pezzo;un pezzo tutt'altro che secondario.
E qui arrivo all'APQP; molto poco praticato, o praticato - per esempio nell'Automotive, sua terra nativa - ma non con tutti i necessari crismi; però se praticato - correttamente - di indubbio vantaggio.
E arrivo pure a monte, al signor Kano, alla voce del bistrattato cliente (slogan a parte) e guarda un po' anche alla Casa della Qualità, ritornando quindi - in una specie di colpo di reni - punto a capo, all'inizio: Qualità è (anche) fare esattamente il prodotto che serve, che il cliente vuole/desidera/sogna, conscio o meno, ovvero massimizzare (con tutte le opportune considerazioni di costoil rapporto P/E.

Personalmente, credo che questo sia un punto enormemente importante; e parimenti sottovalutato.
Innanzitutto: glielo vogliamo chiedere, al cliente, cos'è che vuole? E lo vogliamo stare ad ascoltare per bene, orecchie ed occhi aperti, a catturare anche quello che dice fra le righe? E' lui che deve comprare, bisognerà pur saperlo cosa gli serve!
Smettendo di immaginarselo. Perchè così ci capita di fare: immaginare che cosa il cliente vuole, fare ciò che ci siamo immaginati convinti di essere bravissimi e infallibili, e poi stupirci se il prodotto non vende.
Eppure, è quasi banale. Peccato che poi, nella pratica di tutti i giorni, ci se ne dimentichi.
Segnamocelo a lettere grandi sul taccuino: la voce del Cliente è un patrimonio. Oro, oro puro per l'Azienda. E' il cardine principe della Customer Satisfaction, che in realtà va ben oltre il risolvergli i problemi che gli abbiamo causato.

E qui mi aggancio anche all'Innovazione. 
Che c'entra l'Innovazione con tutto questo?
C'entra, eccome.
Da dove partirà mai, l'Innovazione (**), se non dal fatto - rivoluzionario - di lavorare di cervello e di cuore per prevenire i desideri del cliente e renderli fattibili,se del caso, tramite tecnologie nuovissime? Insomma, tutti hanno in mente Steve Jobs (stay hungry, stay foolish) e i risultati che Apple ha riportato in seguito alla sua gestione. Tra le tante cose rilevanti, l'esistenza di un piano di prodotto che andava molto avanti, e che letteralmente aveva creato un mercato laddove nessuno sospettava ce ne fosse spazio, è stata probabilmente la cosa che ha avuto maggior impatto sull'immaginario nostro. Lasciando da parte la mediatica creazione di un mito "Steve Jobs" postumo: dal punto di vista della salute e del decollo del business, il fenomeno valeva uno studio approfondito. Ad altri la parola, più e meglio informati di me - ma si noti che si Innovazione ben fatta si trattava.

E qui sta il punto, tornando - con un ulteriore colpo di reni all'indietro - alla Qualità. Al QFD, al signor Kano, e guarda un po' anche a me, che negli anni 90 ero ero stata flashata dal cosiddetto fattore "wow!" un po' a pera cotta (sciocca ragazzetta che altro non ero).
Ricordo l'esempio dell'alzacristalli elettrico, per come me lo raccontarono a suo tempo: non era affatto scontato, all'inizio, che si pulisse anche il vetro, azionandolo, per cui era stato un wow - salvo poi diventare un want e infine un must, come accade a tutti i wow che si rispettino.
A quasi tutti, almeno: ricordo, ancora prima, un'auto parlante. Inizialmente: simpatica, divertente, ogni comando era un commento che ci lasciava senza parole. Un vero fattore wow. Ne aveva una un tale che conoscevo, facevamo a gara a salirci. Peccato che poi ci venne a noia; a noi come anche al tale, che a ben vedere aveva un maggior livello di esposizione. La voce suadente venne disattivata. Non mi risulta, inoltre, che oggi il mercato ne sia pieno.
Cito poi un altro caso personale, quello dei sedili riscaldati. Sono stata dirigente molti anni, avevo un'auto aziendale appartenente a una fascia precisa, per policy aziendale. Ma io i sedili riscaldati non li ho mai, nè utilizzati, nè apprezzati, e non certo perchè il freddo mancasse. Non so come si chiami una funzionalità di prodotto non aspettata, che c'è, ma se non ci fosse sarebbe uguale all'occhio del cliente; anzi, lo so: è un'over-quality, qualcosa che il cliente nè si aspetta, nè è disposto a pagare. Ma nel mio caso, il problema era  la mia intrusione in un segmento di mercato estraneo; al resto del target, probabilmente i sedili riscaldati piacevano un botto.

A tutto questo penso, dopo aver assistito a un interessante convegno ATA (Associazione Tecnica dell'Automobile) sui trend nella tecnologia Automotive e sui concetti di mobilità, con la partecipazione attiva di Aziende del settore e Università. Di Innovazione, qui, ha relazionato un global first-tier, nella persona tra l'altro di un ex collega, illustrando il proprio approccio. Ecco la conferma del mio sentire più profondo in materia: Innovare è di fatto un processo, che valorizza e disciplina la creatività a favore di findings concreti. Cui dedicare risorse.
A questo penso avendo incontrato lo scorso fine settimana - in tuta, il cane al guinzaglio - un altro ex collega, di cui ho penosamente ascoltato le difficoltà, per un'Azienda in cui il problema dell'innovazione di prodotto, ma anche della qualità del medesimo, è abissale: moltissimi esuberi sono stati annunciati, tempi cupi si prospettano all'orizzonte.
A questo infine penso, guardando al lavoro svolto da una mio buon contatto, la cui Società si occupa di supportare le Aziende nel finanziamento pubblico a iniziative di innovazione R&D, o di fornire indicazione di partner già in possesso delle tecnologie necessarie.

Insomma, questo intendevo dire: facciamo prodotti di qualità, ma facciamoli sul serio, impegnandoci su tutta la catena dei processi a soddisfare il cliente. Facciamo sì che si 'innamori' del nostro prodotto. E scendendo prosaicamente sulla terra, guardiamoci intorno, analizziamo gli esempi positivi che troviamo (ce ne sono ancora), sia in termini di Innovazione che di Qualità, attrezziamoci con gli strumenti più adeguati, e infine, speditamente procediamo.

(**) A proposito di Innovazione: non solo tecnica e tecnologia. Anche nel servizio al Cliente. Magari mi metterò a citare qualche esempio, prossimamente. Comunque, ancora là torniamo: ascoltiamola, la Voce del Cliente, e bene. Capiremo molto.

domenica 13 ottobre 2013

Accanimento terapeutico (sul prodotto)


Il prodotto che vendiamo è il nostro biglietto da visita.
E' noi stessi: quello che riusciamo a fare, la summa delle nostre competenze. Al di là di ogni leva di marketing che utilizziamo, compresa l'eventuale presa emotiva che riusciamo a fare, è innanzitutto - e logicamente - il prodotto che parla di noi.
Eppure, non sempre questo concetto è così chiaro. Oppure: è chiaro nelle intenzioni, e meno nei fatti.

Iniziando dalla famosissima, strombazzata Customer Satisfaction, alzi la mano chi sente di aver fatto tutto,ma proprio tutto quello che era in suo potere per centrare il prodotto sulle esigenze del cliente; di averlo fatto con un'analisi seria e oggettiva di quello che il cliente (o il segmento/mercato di riferimento) esplicitamente richiede e implicitamente desidera senza quasi accorgersene; di averlo fatto traducendo uno per uno tutti i punti chiave ricavati come sopra, in elementi fisici costitutivi del prodotto stesso, o del suo sistema di contorno (imballaggi, per esempio). Alzi la mano chi lo fa sistematicamente.
Intendiamoci: sono sicura che c'è chi lo fa, e bene. So anche che farlo è tutt'altro che facile, e che capire cosa davvero il cliente/mercato eccetera richiede è attività delicata che implica allocazione di risorse e tempo. Ma il punto non è da poco. E il gioco vale la candela.

Poi, c'è il passo successivo: anche lui non da poco, tosto. Far sì che il prodotto venga fuori esattamente come lo vogliamo, e che sia pronto per quando il cliente lo vuole. Se davvero abbiamo capito che cosa davvero il cliente valorizza, e vuole, ed è disposto a pagare; se sappiamo dove andare ed abbiamo capito anche come andarci per arrivare in orario, allora facciamolo. E assicuriamoci strada facendo che è proprio lì che stiamo andando, e non altrove. Magari ci prende la voglia di deviare, imbocchiamo una scorciatoia che porta vicino (facciamo prima!): ma vicino non è uguale, per un prodotto vicino il cliente/mercato non è disposto a pagare, gli manca quel quid che tanto gli piaceva, non è proprio la stessa cosa.
Quindi: pianifichiamo il percorso. Controlliamo che stiamo andando al punto e non in un altro, cronometro alla mano. Passo per passo.

Banale, eh?
Non proprio. A dirsi, ma non a farsi. Le scorciatoie sono all'ordine del giorno.
Perchè non abbiamo ben compreso il prodotto che il cliente/mercato vuole, e quindi interpretiamo, modificando prestazioni e funzionalità strada facendo verso versioni più sostenibili.
Perchè la stretta è - nelle aziende - sul tempo e sui costi, e in nome di ciò all'occhio interno dell'azienda pare giusto sacrificare qualcosa dell'essenza e della conformità del prodotto stesso a quanto ci si era riproposti (o meglio, a quanto il cliente/mercato avrebbe desiderato). In qualche modo, una rivisitazione in chiave moderna e industriale del vecchio detto 'apparire, non essere'. Come poi il cliente/mercato la prenderà, appare al momento meno importante. Chissà perchè.

E il povero prodotto?
Diventa un cruccio. Mannaggia, si vende poco, meno di quanto avevamo previsto. Ma stai a vedere che questi Commerciali, questi fighetti del marketing l'hanno sparata grossa. Eh, sempre così: a loro i proclami, a noi la dura realtà di  progettare e fabbricare. Con tutto lo sforzo che abbiamo fatto. Ci venissero loro, qui, a vedere com'è.
Diventa un assillo.
Senti, che facciamo, rivediamo un po' com'è fatto, questo oggetto qui? Magari con due mosse riusciamo a fargli fare X (durare di più, consumare di meno, essere esteticamente più gradevole) come avevamo detto all'inizio; come fai a dire di no subito? Provaci, almeno. Dopo, dopo lo vediamo quanto costa. Sì, lo so, siamo tutti molto impegnati, le risorse sono poche per tutti. Ma intanto proviamoci. Una soluzione facile, pratica, immediata. Ho capito: se c'era, questa soluzione, l'avevamo già attuata. Ma proviamoci. E i costi di sviluppo così lievitano (senza che nessuno li contabilizzi).
Oppure: colpa della produzione. L'avevo detto io che doveva essere ben lucido, l'oggetto: guarda tu come te lo fanno, quei disgraziati. Sfido io che non lo compra, il cliente - è lui il fighetto, gli piace ben lucido. A disegno io ce l'ho scritto: ben lucido. Abbiamo fatto fare fuori un campione e glielo abbiamo consegnato: voglio dire, più di così.. E la produzione: noi ben lucido come dite voi non ce la facciamo a farlo. I nostri impianti non sono progettati per farlo così. O meglio, ce la facciamo, ma facendo un sacco di scarti, e riprese, e con costi che non ci possiamo permettere, non ci stiamo dentro. Gli Acquisti: abbiamo provato a chiedere fuori, ma nessuno ce lo sa fare, ben lucido come volete voi!  O meglio, ce lo fanno, ma abbiamo trovato un fornitore a 300 km, che ha il suo lead time, e inoltre costa un botto, non ci stiamo dentro. E la qualità: chiariamo cosa vuol dire ben lucido, quanto davvero lucido deve essere, per risultare conformemente ben lucido? Morale, alla fine: va bene, ho capito, continuiamo a farlo in casa, e controlliamolo al 100%, e scartiamo tutto quello che non va bene; e tra quello che scartiamo, facciamo poi un'ulteriore cernita per vedere che cosa possiamo salvare, come dire, guardiamo che cosa è brutto brutto, che cosa è solo bruttino e in qualche modo possiamo farlo digerire al cliente, quante storie; lo farà la qualità, accidenti, è il loro mestiere, lo sapranno loro che vuol dire ben lucido, no?
Diventa un accanimento terapeutico sul prodotto:  di concezione e sviluppo (tentare soluzioni postume, riprogettare) e di produzione (re-industrializzare se possibile - spesso non lo è; oppure controlli su controlli, con effetti nefasti sui costi, sui tempi, sulla puntualità di consegna e sull'efficienza). Cose che tutti noi un giorno o l'altro, nella vita industriale, abbiamo sperimentato.

Ma il prodotto, signori, il prodotto non è un'entità a sè stante che si materializza come un fantasma di colpo, mandato da chissà chi e chissà perchè; non è un qualcosa che sorge dal nulla e indipendentemente dalla nostra volontà. Il prodotto è figlio di un processo. Anzi, di due processi:

  • per la sua concezione: del processo di sviluppo prodotto e processo produttivo (bada bene, messi insieme, parzialmente e virtuosamente sovrapposti)
  • per la sua realizzazione: del processo produttivo stesso (che deve essere condotto come pianificato,e gestito)

Ben eseguendo i due processi di cui sopra, otterremo il prodotto che ci vuole.
L'attenzione deve essere sul processo di cui il prodotto è figlio, gli effetti benefici sul figlio ricadranno; e qui, mi viene in mente una frase biblica: le colpe dei padri ricadono sui figli. Come no, in questo caso è verissimo.
Altrimenti si tratta di accanimento terapeutico sul prodotto e sappiamo, sappiamo dalla vita di tutti i giorni e per altre esperienze di ben diverso impatto, che i suoi effetti tendono a essere limitati; al contrario dei costi, che sono alti.
Meditiamoci. Facciamo tesoro delle nostre esperienze (impariamo la lezione, altresì detto lesson learnt).

Firmato:
una persona pratica, che insiste, nonostante le sia capitato anche di parlare al vento

venerdì 4 ottobre 2013

Reti,relazioni,contatti (e relative distorsioni)


E' un'epoca social, la nostra, in cui la rete, i contatti contano moltissimo.
Per capire, per condividere informazioni, per restare con il naso allerta e annusare il nuovo che avanza, o come dicono gli Psicologi, lo zeitgeist (lo spirito del tempo) che inizia a manifestarsi. Per scovare opportunità di business, per fare affari.
In fondo, le tendenze vanno cavalcate - ad ognuno la propria,la più conveniente, la migliore -  ed è sempre stato così; la novità è che oggi abbiamo gli strumenti per anticiparle, e anche per modellarle (chi ci riesce, almeno: i top influencers). Come si fa a non approfittarne?

Qualcuno obietta che non ha tempo.E capisco, perchè il tempo è sempre tiranno. Bisogna ricavarselo, costa. Io stessa soffro di questo problema.
Ed è l'unica giustificazione che comprendo. A patto che non diventi una scusa per restare chiusi nel proprio guscio. Ricordiamoci che socializzare è anche vitale, interessante, ottimistico. Empatico.

Quello che non capisco, invece, è come si fa a lanciare il sasso e ritirare la mano. A chi, a cosa serva.
E arrivo al punto.
Ho avuto uno scambio con un mio contatto LinkedIn. Anzi: la persona in questione mi ha approcciato per chiedermi un favore, e nel contempo il link. Come mi abbia scelto, non lo so; do per scontato che un criterio l'abbia seguito. Comunque, mi riteneva in linea con le proprie necessità, evidentemente.
Pur non conoscendolo, ho acconsentito alla richiesta di supporto. Mi sono informata di cosa avesse bisogno, ho dato la mia disponibilità ad approfondire. Per puro spirito di networking, gli ho proposto di conoscerci di persona, visto che la sua è una zona in cui mi trovo spesso ad operare e a frequentare. La persona stessa mi aveva proposto di chiamarla al telefono fornendomi un numero: mi era sembrato un ulteriore passo logico e certo non avevo intenzione di incastrarla in una riunione fiume, si sarebbe trattato di un breve incontro conoscitivo e giusto quando avrei avuto occasione ancora di passare di là.
Bene: a fronte di tale proposta, e di un tentativo (abortito) di telefonata a quello stesso numero che mi era stato indicato, la persona in questione si è clamorosamente ritirata, dicendo che non ha alcun interesse nell'incontrarmi, nè nell'approfondire in generale. Gli interessava che rispondessi alla sua richiesta di supporto e basta, ha dichiarato. In totale contraddizione con quanto aveva comunicato, volente o nolente, a partire da quel numero di telefono, da me non richiesto.

Spero non ci sia bisogno di sottolinearlo, ma onde sfrondare preventivamente ogni dubbio, chiarisco che il mio era un gesto soltanto professionale,sono ben lungi dall'andare in giro ad adescare o circuire persone con la scusa del lavoro. E che diamine.
Gliel'ho anche esplicitamente sottolineato, a costo di sembrare pedante. Sulla mia integrità e serietà non transigo.

Per cui non ho capito com'è che il sasso sia stato lanciato: la mano, come dire.. è sparita.
Mentre il sasso è rimasto in mano a me.
Io ho proceduto con quanto mi si richiedeva - non grande cosa, in realtà - per coerenza. E per serietà.
Mi sono detta: il problema è suo. E ne sono convinta.

Ma l'episodio mi richiama qualcosa del passato, e mi invita a riflettere.
Qualche anno fa, percorrevo a piedi una strada del centro storico. Era buio, i lampioni illuminavano poco. Camminavo sul marciapiedi. Avevo appena voltato l'angolo quando vidi  una moto che procedeva velocemente e rumorosamente verso di me; anzi, vidi il suo grosso fanale, che mi abbagliò. Fu questione di un attimo: di lì a poco, la moto precipitò a terra con grande sferragliare. Aveva fatto tutto da sola.
Essendo buio, la strada era deserta. Il conducente non si rialzava e quindi mi precipitai lì per soccorrerlo; gli chiesi se andava tutto bene,gli offrii il mio aiuto. Per tutta risposta, questi si tolse il casco, mi puntò gli occhi in faccia e disse: "Sei stata tu!". E cominciò a gridarlo: "Sei stata tu! Sei stata tu!". Stava benissimo, evidentemente.
Io, rimasta inizialmente interdetta, cominciai a rispondere, ma lui si era alzato in piedi, la sua voce era alterata e rischiava di soverchiare la mia. Cominciava ad accorrere gente. Per fortuna un signore prese la mia difesa e in un attimo mi scagionò. Per fortuna. Altrimenti, in assenza di testimoni, non so che avremmo fatto, magari mi sarebbe capitato come a quel tale amico di amici che, precipitatosi a soccorrere, la mattina presto, un'auto precipitata in un canale, si è trovato in tribunale accusato di essere colui che ce l'aveva fatta finire dentro. Una storia che si trascina da anni.

L'esperienza con la moto ha una forte analogia concettuale con quella del sasso e della mano di cui sopra. In ambedue, infatti, la mia azione aveva una finalità di aiuto e supporto (positiva), mentre la reazione da parte dell'altro è stata negativa, di incomprensione (sasso & mano) o di attacco (moto).
In sostanza: ho offerto positività e ottenuto negatività.
Verrebbe dunque da dirsi: se l'esperienza insegna, basta offrire positività. Basta dare disponibilità. Stop.
Invece no, non bisogna dire basta. A parte le potenziali accuse di omissione di soccorso, certo non mi tirerò indietro la prossima volta che vedrò qualcuno a terra; nè mancherò di rispondere alle richieste di supporto professionale, anche se vengono da persone che non conosco de visu, e specialmente se non sono particolarmente impegnative. Ovviamente per quanto posso e se sensate.

P.S.: in una giornata come questa, di lutto nazionale per i gravi fatti di Lampedusa e dintorni, forse il finale mi è venuto un po' drammatico. Apologise.

sabato 21 settembre 2013

Farete (Fa-rete)

Non è un gioco di parole, e di questi tempi, figuriamoci se avevamo bisogno di indovinelli.Quello di cui abbiamo bisogno è di esempi concreti, buoni.
Come Farete.

Farete è il nome dato a una fiera che si è tenuta il 16 e 17 Settembre a Bologna, zona CAAB. Una vetrina per aziende per lo più locali (qualcuna però no) che si sono incontrate de visu, di persona, con l'intento di passare dalla mail alla stretta di mano (questo è il sottotitolo dell'evento).
Incontri e strette di mano tra aziende, tra aziende e visitatori, tra visitatori.

Io sono andata, avevo un appuntamento. E a parte l'appuntamento in sè, che è stato costruttivo, ho avuto occasione di guardarmi intorno, osservare e interagire. Appunto: costruttivamente.

Mi ha colpito la presenza di alcune reti di imprese strutturate ed ufficiali; i referenti: persone determinate, ben disposte,gentili. Idee ed esperienze davvero interessanti. Che mi stanno scrollando di dosso quel po' di diffidente cautela che avevo in merito. Un qualcosa del tutto mio, d'altra parte, di cui mi riconosco ogni responsabilità; dovuto alla mancanza di conoscenza diretta.

Ho conosciuto l'AD di un'Azienda meccanica, fiero della propria realtà, e a ragione, visto che, a dispetto dei luoghi comuni e di tanti casi reali, pur essendo piccola gode di ottima salute. L'AD è intervenuto di persona alla fiera, a rappresentare la propria creatura: fatto non consueto. E' stato molto interessante confrontarsi con lui: la conferma che i clienti giusti sono un asset strategico (anche se di conferma non c'era bisogno, lo so), e che purtroppo i fatturati ultimamente si fanno per lo più con chi esporta. Niente di nuovo, è vero: ma un'azienda che lavora su tre turni non si incontra di frequente (adesso). Ottimo segnale, un auspicio.

Ho assaggiato qualche tortellone dalle aziende di ristorazione presenti (erano pure buoni!) e ho visto moto di pregio ai propri stand (dulcis in fundo: veniva voglia di saltarci su e sgommare via).

Mi dico: questo è un esempio concreto,buono. Ed avrà per forza un seguito.

sabato 14 settembre 2013

Io, l'Italia e la Lean

Storia di lunga data, la nostra. In Italia io ci sono nata, la Lean no. Ma il mio contatto con lei è in qualche modo antico.
Ho in mano alcuni testi sacri che possiedo da lunga data (1991): 'Kaizen' di Masaaki Imai, e 'La macchina che ha cambiato il mondo' di Womack, Jones, Roos. E anche, sorprendentemente, 'TMM-Total Manufacturing Management' di Giorgio Merli (ed.1987, italianissimo). A distanza di così tanti anni, mi stupisco rileggendoli; ma non dovrei. Ne entrai in possesso quando ero troppo giovane, e troppo fuori contesto, per capirli o apprezzarli. Già, perchè contengono intera la summa del pensiero Giapponese, ideato o iniziato da Taiichi Ohno; ed è tutto quanto c'è da sapere, tecnicismi a parte. Noto che la prefazione della Macchina è a cura di Giovanni Agnelli, mentre quella del Kaizen è di Alberto Galgano; quella del TMM è di Ryuji Fukjuda della Japan Management Association.
E rifletto.
L'Azienda in cui al momento lavoravo aveva deciso di mettere in atto progetti Kaizen e io, come alcuni altri, ero stata scelta per contribuire al cambiamento. Probabilmente le vacche erano grasse, e complice l'esposizione prolungata alla cultura giapponese (dovuta a un progetto di interscambio cultural- industriale concluso con successo**) , un'onda entusiastica aveva investito il Management spingendolo ad osare oltre il nido delle aquile. Operativamente, avevano dedicato un giovane ingegnere (come me), detto Kaizen lui stesso, a seguire e garantire il processo. Che si dava da fare. Ricordo un gran raccogliere dati, e un gran analizzare. Ricordo meno quali furono i risultati di tutto quel gran lavoro; ma probabilmente è la memoria che mi fa difetto. Scusatemi.

Se tralascio tutte le efferatezze che ho visto compiere nel tempo ai danni della Qualità Automotive (le cui basi sono lì, di matrice giapponese), nonchè il convergere silente dell'organizzazione della produzione verso logiche Lean (es.implementazione celle), posso dire che l'esperienza con il Kaizen/Lean di cui sopra è restato per me un fatto isolato fino alla seconda metà degli anni '00 del 2000. Quando ho avuto la ventura (la fortuna) di entrarvi a stretto contatto.
L'Azienda per la quale lavoravo era straniera, decise un programma a tutto tondo in cui anche i Plant italiani erano coinvolti. L'input veniva dalla casa madre, no way to escape, e visto che ci eri dentro fino al collo, conveniva vedere di trovarci il lato positivo, che a ben guardare, c'era eccome.
Credo che in quel periodo,come nel mio caso, la maggior parte delle Aziende italiane che iniziarono ad applicare le Lean appartenessero a Gruppi stranieri. In Italia, ancora di Lean si parlava poco. A parte il Gruppo Fiat-Chrysler, che riprese il WCM e lo fece proprio, riguardo il quale  ricordo anche alcuni affondi in area Six Sigma (per la cronaca).

Poi è arrivata la crisi (2008). Non so se sia stato un caso o meno (la seconda, direi), ma la WCM come la Lean hanno cominciato a diffondersi. Ho visto interi distretti applicare la WCM, come se le Aziende ivi comprese si contagiassero a vicenda - per fortuna, un contagio positivo. Ho visto inoltre un vero e proprio battage pubblicitario a favore della Lean, e le Aziende avvicinarsi progressivamente, attratte dai risultati che si possono ottenere e forse anche un po' per spirito di imitazione. Ho visto anche chiamare 'Lean' cose che con la Lean c'entravano poco, ed erano piuttosto assunti di base imprescindibili - da cui però ci si era tenuti alla larga fino a quel momento. In sostanza, in qualche modo, c'era nell'aria un fermento positivo.

Adesso, il battage è realmente esasperato. Dappertutto. E la reazione del mercato non è mancata.
Ci sono Aziende (spesso di grandi dimensioni) che si sono create il loro sistema di ispirazione giapponese e hanno dato via ai propri XPS, dove 'X' è l'iniziale del loro nome (es.SPS - Sandra Production System). Investono in personale e progetti, qualcuna con un certo mal di pancia nell'armonizzare le istanze della qualità con quelle della Lean - come se fossero due cose diverse - e mantenendo responsabilità separate; ma di fatto iniziando un percorso virtuoso.
D'altra parte anche le Università hanno iniziato a sfornare ingegneri gestionali che studiano la Lean sui banchi, e magari poi ci fanno sopra una bella tesi di laurea con stage: il mercato dovrebbe ricercarli, ed essere pronto ad assorbirli.
E invece la domanda di tali figure non è poi così alta come ci si dovrebbe aspettare. Perchè restano diverse le Aziende 'tradizionali', tendenzialmente medio piccole (ma non mancano le medio grandi), per le quali la Lean e tutte le altre tecniche sono a distanze siderali. Per motivi di mere contingenze, mentalità, approccio del Cliente stesso; cultura di base del contesto in cui si muovono al momento o dell'imprenditore; issues finanziarie. Per queste Aziende, hai voglia di sventolare certi nomi altisonanti, acronimi succosi: la vita aziendale è rimasta a molti anni fa. E i casi sono due: o  funzionano benissimo così (il loro mercato ne è soddisfatto), o sono destinate a rivedere i propri piani interni ed è solo questione di tempo. Le valutazioni sono da fare caso per caso. I posteri vedranno.

Come sarà il futuro? Il mio sentire è che il futuro va verso l'esasperazione dell'ottimizzazione. E che con il termine 'ottimizzazione' si intendano sostanzialmente due concetti:

  • il concetto 'sano': ottimizzare l'organizzazione, e di conseguenza i costi. Nel più puro spirito Lean: persone motivate, processi efficienti anche grazie alle persone (nonchè ai macchinari, tenuti come 'le cose sante' - diceva un medico del lavoro che ho conosciuto), gestione della produzione in modo da limitare la minimo le scorte pur servendo il cliente 'nel coscio' o con 'il boccon del prete' (come volete), ma davvero - e quindi concentrazione sull'eliminazione dei MUDA overproduction, inventory, transportation, attualmente un po' più trascurati degli altri nella pratica Lean 
  • il concetto 'insano' o distorto: ottimizzare i costi, l'organizzazione si vedrà. Nel più puro spirito anti-Lean e anche anti-logica che tanto piace, però, ad alcune persone poco lungimiranti. In questo senso, l'oggi davvero è già il domani, le basi sono gettate abbondantemente. Si tratterebbe, intanto, di tagliare il personale, senza tanto stare a considerare quale lavoro svolgeva, senza distinguere fra quello eliminabile (NAV) e quello non eliminabile (AV). Senza alcuna considerazione preventiva riguardo la necessità o meno di re-ingegnerizzare i processi sui quali il taglio impatta, e magari tagliando anche attività AV (giuro che ho visto anche questo!); l'importante è il costo, che deve essere basso (e se magari il prodotto finale non viene un granchè, ci si penserà con calma). Poi, si tratterebbe di prendere alcuni volenterosi - o no, non importa - e far fare a loro, oltre a quello già assegnato, anche il lavoro che deriva dall'eliminazione dei loro colleghi, e zitti. Si tratta di un approccio spacciato come 'urgente', o dell'ultim'ora, in qualche modo contingente e temporaneo, che però viene perpetrato nel tempo diventando di tipo permanente; i costi bassi sono necessari e piacciono, inutile nascondersi dietro un dito, e se una cosa funziona, la si tiene in piedi!

Per questo secondo scenario, mi scuso sin da ora per l'arditezza. Purtroppo, avendo vari anni di lavoro alle spalle, credo di averne viste di tutti i colori, nel mio piccolo. E quindi, pur facendo mere previsioni che per definizione sono congetture, parlo con cognizione di causa. Spero soltanto che le Aziende che seguiranno questa seconda strada siano sempre di meno. Nel senso che auspico un'inversione di rotta da parte di molte di loro. A beneficio di tutti noi.

** UN PAIO DI NOTE in merito all'interscambio cultural-industriale italogiapponese di cui sopra, secondo la testimonianza dirette che raccolsi:
- un tizio giapponese, innamoratosi dell'Italia, al momento di rientrare si diede alla macchia. Fu tuttavia scovato e rimpatriato con il foglio di via. Pare che non fu mai più reintegrato nei ranghi.Pare anche che all'origine del gesto ci fosse la passione per il modo in cui noi cuciniamo il pesce (su questo, personalmente non giurerei)
- mi fu raccontato del Karaoke,  in tempi ben precedenti a quelli in cui iniziò a far furore anche da noi. I colleghi ne erano esterrefatti. La pratica si svolgeva in locali frequentati solo da uomini in cui si andava a cantare dopo il lavoro. Che si commuovevano con il canto. In particolare, pare che in platea scorsero lacrime quando 'O sole mio' fu intonata (in italiano) da uno dei miei colleghi, peraltro non particolarmente dotato. Mi viene in mente per associazione un concerto di Renato Zero cui partecipai moltissimi anni fa, ben prima dell' interscambio cultural-industriale di cui sopra: accanto a me, due giapponesi di mezza età, che pur non capendo una parola piangevano come vitelli.
- mi fu raccontato anche del Pachinko, una sorta di gioco d'azzardo basato sull'accumulo di sferette di acciaio, che da noi non mi risulta abbia mai fatto particolari faville. Tranquilli, al momento sono in buona e ve ne risparmio i dettagli...:))


venerdì 6 settembre 2013

TPS, d'accordo... ma del Giappone non parliamo?







Se lo ignorassimo,sarebbe come affermare che il Giappone non ha niente a che fare con il TPS. E invece ne e' padre, sostanza, substrato e culla. Toyota - o Toyoda - e' un nome giapponese e altrimenti non potrebbe essere.
Ho trascorso una serata interessantissima, ad ascoltare chi ne sa molto piu' di me in materia. Un signore italiano che del Giappone ha sposato una figlia e interiorizzato i modi. La voce mai veemente o aspra, i contenuti ricchi ma semplici.
L'occasione? Il 'Management By Cleaning', ovvero il 'Gestir Pulendo' (una mia libera traduzione). Da quella serata, rifletto sulla somma dei valori e dei comportamenti che fanno la cultura di un popolo - il nostro, quello giapponese. Cosi' diversi, almeno per quanto puo' sembrare a me che non sono un'esperta, nonostante i molti cartoni di Mimì Ayuara o Capitan Harlock che ho visto in passato (nessuno è perfetto).

Riflessioni a voce alta:
1) Parlando di ordine e pulizia in officina  (magari meccanica, dove ci sono trucioli e grasso), quanto naturale potrà sembrare agli operatori la richiesta di provvedere di persona? Mettiamo che gli operatori siano uomini, e non proprio giovanissimi: a molti, a casa, dopo cena càpita di piazzarsi sul divano, ed e' la compagna a sparecchiare e fare i piatti - sono cose da donne. Mi scuso per la generalizzazione, so bene che non deve fare di ogni erba un fascio: ma il  punto e' culturale. La nostra cultura storicamente assegna alla pulizia categorie di persone ben precise: operatori del settore al lavoro, donne nel privato; le cose stanno cambiando, ma non troppo velocemente
1bis) un episodio a cui ho assistito di persona. Macchina del caffè aziendale: ad un signore cade il bicchierino con ancora del caffè dentro. Il pavimento si sporca, il signore impreca e poi si allontana; il bicchierino e il contenuto restano a terra. Alcuni secondi di silenzio. Dal gruppetto che si trovava in pausa, nei pressi, si alza la voce di una signora: 'Ma insomma, con tante donne... togliamolo da terra, no?' e si china. Immediatamente altre due colleghe impugnano carta e quant'altro, rimuovono caffè e bicchierino. Il commento era per le donne (me compresa) che non si prodigavano, e non per colui che, maleducatamente, aveva versato e non rimediato. Il tratto culturale è evidente.
2) Da studentessa, mi davo da fare con lavoretti. Una delle mie esperienze fu in una pizzeria, in cui trascorrevo i sabati e anche le domeniche; dapprima, oltre al resto, mi spolmonavo a pulire i pavimenti con il mocho, poi mi accorsi che i colleghi il pavimento giusto lo bagnavano, e mi adeguai. E che cavolo - mi dissi - devo essere io l'unica? Mea culpa, nostra culpa. Ma si tratta di un atteggiamento simile a quanto si vede talvolta verso la fine del turno, quando l'ora sta per arrivare; i dieci minuti assegnati per pulire potrebbero tradursi in un girare a vuoto con la ramazza in mano, un colpo qui e un colpo la', in attesa dello scatto della lancetta per schizzare via.
3) Cambiamo latitudine e continente, andiamocene in Giappone. Il suddetto Gestir Pulendo coinvolge tutti quanti. Mica solo gli operatori: dal presidente fino all'ultimo assunto, manager, venditori, impiegati, tutti insieme convergono a pulire macchine, impianti, uffici, e chi piu' ne ha piu' ne metta. La prima mezzora, la mattina, si passa cosi'. E intanto si crea spirito di team, si diventa compagni di squadra. Si cambia in tal modo il personale aziendale (in meglio), l'impresa e persino la Società. Si hanno - pare - anche altri numerosi vantaggi, pero' non e' questo che voglio sottolineare adesso. Mi interessa sottolineare due degli elementi culturali che rendono questo possibile.
PRIMO: il valore dell' umilta'. Il signore di cui sopra afferma che in Giappone chi si mette in mostra non e' assolutamente ben visto, e non fara' carriera (per esempio). E di umiltà, nel Gestir Pulendo, ce ne vuole. E' una cultura improntata all'umiltà quella che induce un manager a rimboccarsi le maniche e mettersi a strofinare dadi, bulloni, superfici, cuscinetti.
SECONDO:il valore del rispetto. Il manager pulisce fianco a fianco con l'operatore, e facendolo collabora, interagisce con lui da pari a pari. E' il compito comune che mette sullo stesso piano, in modo naturale.
4) Pensando al Gestir Pulendo alle nostre latitudini, osservo la scarsa diffusione dei due elementi culturali di umiltà e rispetto (nel senso di cui sopra), e mi chiedo in quale modo possiamo approdare a processi e risultati simili. Per gradi? Forse sì. Noi, nel migliore dei casi, abbiamo pratica del 5S (**): il sistematico coinvolgimento di tutti che caratterizza il Gestir Pulendo richiede un (grandissimo) passo in più, ma con il 5S un primo gradino su cui poggiare tuttavia esiste. Occorre pensare a come evolvere da lì, e già che ci siamo, a come garantire un doveroso Sustain del 5S stesso (perchè è lì che cadiamo noi, alle nostre latitudini, se non prestiamo la necessaria attenzione).
Insomma, di strada da fare ne abbiamo.
Ma il punto, ancora una volta, non è tanto nello specifico ambito del Management By Cleaning, o nel TPS: è nella cultura che li sostiene e di cui sono figli. La nostra è diversissima. Hai voglia di importare i tools gestionali e tecnici specifici che hanno fatto successo nell'industria e nel mondo giapponese: non è (solo) così che otterremo risultati paragonabili, ci vuole l'humus adatto. Vogliamo, per esempio, parlare del famosissimo Manager-Coach, raramente avvistato nei nostri mari?

Concludo affidando ai posteri un link di approfondimento, perche' sia dato a Cesare quel che e' di Cesare, e le fonti siano chiare: il signore in questione è il Dr.Rosario Manisera (vedere Maema S.a.s. di Manisera & C., e andare sul sito  http://www.fujikai.it).

(**) Con l'occasione, ho scoperto una nuova sesta S del 5S (che diventa 6S). La sesta che conoscevo io, era la S del Safety (e mi cospargo il capo di cenere: la Safety è naturale conseguenza del 5S, non serve una S a sottolinearla); la nuova e' quella del Saho, che significa buone maniere. Perche' il 5S sempre li' torna, anche lui, dove stanno il Gestir Pulendo e il TPS: al valore del rispetto. E alla cultura di cui è parte.

martedì 3 settembre 2013

Settembre, andiamo... è tempo di migrare

Settembre è arrivato, chi era tornato a casa per le vacanze se ne è migrato indietro, chi le vacanze non ha avuto modo di farle ha continuato a migrare, o a non migrare, come sempre, come tutti i giorni. 
Con Settembre, rapidamente riprendiamo il corso del lavoro rimasto sospeso per una salutare, giusta pausa di riposo. E di  nuovo ci guardiamo intorno.
Io mi fermo ad osservare cosa gira per il web. Che cosa ha fermentato nella mente dei miei colleghi e contatti con il caldo che ha fatto in Agosto. E vedo:
- ricerche di lavoro, ricerche di lavoro, ricerche di lavoro (molte: nulla di nuovo)
- offerte di lavoro (poche, circostanziate, caute:nulla di nuovo)
- paradigmi dati per assodati riguardo il fatto che uomini e donne hanno meccanismi diversi (la donna è portata ad essere 'multitasking', l'uomo no, si afferma)
- paradigmi dati per assodati riguardo il fatto che quanto sopra dipenda da cause fisiche (lobi del cervello, estensione di certe aree critiche demandate)
- altre amenità che talvolta fanno ridere e spesso inducono a tristi riflessioni

Per oggi, e per questo mio primo post, più o meno la finisco qui. 
Ma fate attenzione ai due bullet points riguardanti uomini e donne: nei giorni prossimi potrei utilizzare la statistica per dire la mia in proposito. Una piccola digressione scientifica. 
Forse.

Nel frattempo, buon lavoro a tutti (anche a me stessa).
SZ