lunedì 24 novembre 2014

L'uomo senza qualità? No, senza difetti


Eh, e chi non ne fa? Mi dispiace per voi, ma l'uomo senza difetti non è ancora nato. Nè nascerà a breve.
Sbagliamo continuamente, in modo più o meno grave: nella vita come nel lavoro. In entrambi i casi, gli errori si pagano. A volte, cari.
 
La buona notizia è che dagli errori si può imparare. E mentre nella vita ognuno fa come gli pare (ci mancherebbe: a proprio rischio e pericolo), nel lavoro imparare non è che si può: si deve.

Nei miei giri aziendali, molti e a volte vorticosi, sento le seguenti frasi:
- 'Sì, ma quello non capisce niente'
- 'A lui no, questa cosa non la faccio fare. Tanto sbaglia sempre'
e mi viene lo scoramento.

Ho tenuto un corso in settimana, in cui fra l'altro ho toccato l'argomento 'poka yoke'. Quando ho chiesto: 'sapete di cosa si tratta?', qualcuno ha risposto: 'a prova di stupido'.
Ho ribattuto: 'a prova di errore'.

Questa è la mentalità predominante: che ci siano gli stupidi e quelli bravi. Che gli stupidi sono hopeless e vanno lasciati al loro destino. Che i bravi sappiano le cose perchè le captano nell'aria, o per osmosi dai pori della pelle. Che un dio magico e dispettoso infili la conoscenza nella testa di qualcuno e non in quella di qualcun altro. Che si tratti di un dono.

Ma la realtà è diversa e lo ripeto: tutti sbagliamo. Quelli che sono ritenuti bravi, e anche gli altri. In maniera diversa, forse, o con frequenza diversa. Ma nessuno, nessuno è immune da errori.

Mi allargo quindi in alcune considerazioni che ritengo di pura civiltà, oltre che opportune per il business:
  • formazione prima di tutto. E' inutile riempirsi la bocca di inglesismi tipo tacit knowledge se neppure la knowledge per nulla tacit evitiamo di trasmettere. O snobbiamo. 
  • Di geni, di norma, nelle imprese non c'è bisogno; ma di gente che sappia fare quello che deve, sì. Quindi, punto primo capiamo cosa c'è da fare, e punto secondo insegnamolo a chi lo deve fare.
  • Ho fatto molto sport in vita mia, e con impegno e passione. Purtroppo quei tempi sono trascorsi; ma questa è un'altra storia. Ricordo perfettamente un allenatore che diceva, a proposito di una certa cosa complessa da assimilare (in puro toscano, scusate): 'a me mi viene. Voi, fate in modo che vi venga', e qui si esauriva il suo insegnamento. Un esempio da non imitare.
  • Nonostante la formazione, capita ugualmente di sbagliare. Ovvio che maggiore è l'esperienza e la conoscenza, minore è la frequenza e la gravità degli sbagli. Ecco perchè quelli bravi sbagliano pochissimo. Ma pochissimo non è zero.
  • Ogni volta che sbagliamo, capiamone il perchè. Si dice analizzare le cause (per gli amanti dell'inglese: root-causes analysis). Bada bene: le cause, e non la causa: di norma sono più di una. Nell'industria, in produzione, per esempio: cause tecniche e cause gestionali (insidiosissime le seconde, più esplicite le prime)
  • Un volta che abbiamo capito il perchè, spieghiamolo. Diffondiamo questa nuova conoscenza che ci è derivata dall'errore.  Perchè di questo si tratta: di capitalizzare l'esperienza, e trasmetterla ad altri, affinchè si prevenga la commissione dello stesso errore da parti di altri. 
  • La cultura deve essere quella della risoluzione dei problemi, e non quella del giudizio. Mica siamo a scuola, che ci davano i voti e se prendevi l'insufficienza facevi la parte dell'asino: qui siamo al lavoro. E l'unica cosa che ci deve interessare è che il lavoro vada avanti liscio, senza intoppi, con chi lo esegue che fa del suo meglio ed impara, dai propri come dagli altrui errori. Solo così l'azienda progredisce, consentendoci di progredire con lei
Il post è finito, andate in pace. Ma pensateci.

sabato 8 novembre 2014

Il Marketing 'Positivo'


E ne parla una che di mestiere fa tutt'altro.
Una che di Marketing, fino a poco tempo fa, ne sapeva quanto di Altissima Finanza, ovvero: niente.

Io non so se il termine Marketing 'Positivo' esiste; e francamente non mi importa. Tanto, per me è così che si chiama. E mi basta.


Si tratta di spargere semi positivi. Ovvero: supportare, aiutare. Anche in modo gratuito.
E' la filosofia del 'Givers gain': chi dà, riceve.

Ah, ma non sono San Francesco, anche se la sua figura mi piace molto: lavoro nell'industria (e anche per l'Università, ma questa è un'altra storia) e lo faccio per vivere. Quello di cui sto parlando a questo si riferisce: al "dare" nel lavoro.
Ai Clienti, a coloro con cui si entra in contatto.
Senza troppi pensieri, senza alcun retro-pensiero. Anche solo per il piacere di farlo.


Non significa affatto fare lavori su lavori gratis. Significa fare quel passo che per te è poco, mentre per colui che lo riceve è molto. Non ha costi elevati, tutt'altro; sai di cosa si tratta, vai sul sicuro. E' una semplice pillola. Non ti serve un gran tempo o spremitura di meningi, ti viene di tacco, o quasi; insomma, per te è facile, veloce.
Chi riceve, forse lo sa; ma forse no. Ma soprattutto, chi riceve ne ha bisogno, per cui se ti viene facile o meno non gli interessa, gli interessa il fatto che tu lo hai aiutato. E bene.


L'effetto del Marketing Positivo è quello di farsi conoscere nel modo migliore. Nella propria competenza, nella propria disponibilità e attenzione. E' un potente acceleratore del passa-parola, che, volenti o nolenti, resta ancora uno dei metodi migliori per trovarsi del lavoro.
Il quale inoltre, una volta trovato, necessita di consolidamento e ulteriore sviluppo. Ed ecco che il Marketing Positivo entra in gioco di nuovo, nei suoi panni migliori. Vestito a festa.

Una sola volta mi è capitato qualcuno che intendeva approfittare della situazione.
La mia personale soluzione, è stata dare meno, in modo sensibile. Far capire che si trattava di accertamenti e lavori di una certa complessità. Dirlo in modo chiaro.
Il risultato è stato un accordo per ampliare l'orizzonte delle mia attività. Ottimo quindi. Sì, ma in apparenza. Infatti, di lì a poco l'Azienda in questione ha chiuso i battenti.

Buona riflessione. 
A tutti.

lunedì 27 ottobre 2014

Un boccone per strada


Chi mi conosce lo sa: sono sempre in auto.
Infatti mi chiamavano "la donna con le ruote".
Mi sposto per andare dove il lavoro chiama. Per lo più in autostrada. Le Aziende, con le loro unità produttive, hanno il brutto vizio di impiantarsi in periferia, e non in centro, proprio sulla via della struscio. Per cui ti serve l'auto, non c'è altro modo.
Questo, per chi ogni tanto mi dice: 'ma è tanto più comodo il treno'.
Mi capita di aver voglia di un boccone, di tanto in tanto. Anch'io, vegetariana, pur con i miei crismi poco autogrillabili, ho fame all'ora di cena. O di pranzo. E quindi mi fermo. Mi sgranchisco e mi servo al self-service, al banco pizza, al bar, al frigo dei gelati.
E mangiando osservo.

I camionisti, per esempio. Con le loro docce riservate. D'estate, con gli asciugamani sulla spalla e in mano la trousse da cui spunta il pettine a denti radi, a vagare in zona bagni. Magari con gli zoccoli ai piedi. Profumano di bagnoschiuma fresco fresco, i capelli ancora umidi. E hanno gli occhi segnati.


Oppure i giovanotti trendy. Se ne vedevano di più, qualche anno fa: un effetto della crisi, io credo. Camicia rigorosamente azzurra, d'inverno con il cappotto serio sulla giacca sciankrata, e se è giorno occhiali da sole all'ultimo grido. Impazienti, al limite dell'arroganza: il mondo li aspetta, il mondo è urgente. Hanno un appuntamento da qualche parte, un ufficio - magari commerciale - in cui fare bella figura, con un ruolo di qualche tipo che è, o forse vedono (sognano), significativo, di lustro.
Ho notato che molti di loro, alla ripartenza, tendono a sgommare.
E poi gli addetti del locale ristorante, a volte giovanissimi, a volte quasi anziani, tanto che uno si chiede che cosa li ha portati lì, a quella scelta; e poi evita di darsi risposte. Mi capitano, a notte fonda, ben oltre la mezzanotte, oscuri ristoranti di periferia, in autostrada, in cui sono presenti solo donne, magari giovanissime; a volte, con la protettiva presenza di una pattuglia della Stradale che si ferma per un caffè. Ma la Stradale non c'è spesso, nei ristoranti dell'autostrada: hanno altro da fare, a parte l'eccezione di un caffè notturno. A dispetto delle multe che tentano di propinarmi, che, parafrasando Battiato, 'per mia natura attiro', pattugliare le strade è un lavoraccio che non lascia molto tempo per gli svaghi.
E neppure per le pene d'amore: perchè di questo mi è parso che si trattasse, la settimana scorsa, quando ho incrociato lo sguardo implorante di un giovanissimo poliziotto verso una avvenente ma sdegnosa barista.
E poi i fatti strani.
Una volta, verso Pescara, venni stanata dal bagno da un secondino dal tono imperioso. E poi fatta uscire di fretta, insieme a un altro paio di tizi, sul piazzale antistante. Me ne ero andata protestando vivacemente; ma le parole mi morirono in bocca, quando vidi uscire dall'alto cellulare blu un uomo in manette, tenuto saldamente da entrambi i lati. Mi colpirono lo sguardo beffardo e il suo sorrisetto; e poi, ovviamente, il gesto decisamente osceno che la sua lingua decise di rivolgermi.



Qualche sera fa, seduta a un tavolo del self-service, ho ascoltato la conversazione di un uomo maturo e stanco con due ragazzi ridanciani e baldanzosi, di cui uno pure rasta. Tutti camionisti. Un amico dei due, non presente al tavolo, aveva appena superato un colloquio: quindi avrebbe fatto la spola con l'Olanda. Guidando, come loro. I ragazzi si davano le gomitate: che fortuna. Le belle ragazze bionde, la roba, la maria. L'avventura.
"Ma mica per sempre" dicevano "per qualche anno; poi smette".
"Si dice sempre così" ribatteva il terzo, quello stanco "poi non si smette; guardate me"
"Ma no, lui smette: l'ha detto. E comunque, va a stare meglio, no? Avrà uno stipendio, tutti i mesi"
L'uomo improvvisamente ha alzato la voce: "Ma si resta soli, capito? Con questo mestiere si resta soli! Specialmente se si guida all'estero"
Si è gelato mezzo Autogrill. Un tizio lì vicino si è fermato con la forchetta a mezz'aria.
Io ho annuito fra me e me. E mi sono alzata per depositare il vassoio.
Perchè nel mio piccolo, so di cosa quell'uomo stanco stava parlando.

Recentemente, poi, mi sono fermata per una cenetta di quelle che sono un  piatto veloce e via. E' più la noia di chiedere fattura (per pochi Euro) che altro. Ma le signore che stanno alla cassa del self-service ci sono abituate: tu paghi, e loro ti consegnano il foglietto del conto con i dati per la fattura in bianco. Dopo tornerai a darglielo compilato pre bene, ma calma e tranquilla, quando avrai finito di mangiare: e allora sarà fattura vera. La signora alla cassa, però, ha fatto un danno, quella volta; o come sosteneva lei, il danno l'ha fatto il dispositivo cassa automatico. Fatto sta che tra il cassetto da chiudere/non chiudere, e l'inchiostro che non si leggeva, e le dita irritate che schiacciavano un tasto e poi annullavano, si era fatta la coda. Tralasciando le mie patate arrosto che freddavano.
Insomma, è intervenuto il responsabile, un tipo con la camicia cifrata e stirata, e non con la T-shirt da Autogrill che hanno gli addetti normali. La signora si è beccata uno shampoo non da poco, nella pubblica piazza. Cercava anche di ribattere, ma ogni eccezione riceveva la sua secca risposta. Un contrappunto ineccepibile. Imbarazzante, e sempre a sfavore della signora.
Al tavolo, le patate ormai fredde (che mi sono comunque mangiata), mi sono detta: qui no, per un periodo qui non ci torno.



E infine una certa stazione ("la fermata", come la chiamo io) sulla A13, direzione Padova. Ci capito spesso la mattina presto, molto presto. E ci trovo un puzzo colossale, insopportabile. Normalmente, confinato al di fuori del locale ristoro; qualche settimana fa invece, penetrato pure dentro. Allora non ho resistito, e ho chiesto. Le addette non hanno saputo, o voluto, darmi una risposta.
Un tizio invece mi ha fornito la sua, ed era un cliente, come me: "Ho pensato, più volte, che fosse un camion dei rifiuti parcheggiato fuori. Magari mal pulito. Oppure cotto dal sole, dal caldo. Mi sbagliavo. E' una fabbrica chimica, qui dietro. Lo sanno tutti".
Sono rimasta così, imbambolata; e l'ora non c'entrava. Un puzzo del genere non è regolare in nessun caso, men che meno se davvero proviene da una fabbrica. La faccenda mi ha turbato non poco, e ho deciso di scriverne.
Però poi, Giovedì scorso (stessa sosta e identico orario), magicamente il puzzo non c'era.
Non so perchè, non so cosa sia successo.
Ma spero che non si tratti di un caso e che il problema, in qualche modo, sia definitivamente scomparso. Avrà giovato farsi sentire?

mercoledì 8 ottobre 2014

Dorothy Perkins? No, Dorothy Project

 Chi non conosce Dorothy Perkins?
Io.
O meglio, non lo conoscevo: adesso invece sì, per uno sbaglio, per puro caso. Ho scoperto che trattasi di un brand di oltre cento anni di vita (e salute) dedicato alla moda femminile.
Ho dato un'occhiata ai modelli: niente male, direi.
E' possibile che qualcosa mi sia persa, frequentando altri.
Chissà che non sia il caso di recuperare.
 
Comunque.
Lo spunto mi è propizio per parlare di Dorothy Project.
Che non è un brand, ma un Progetto Europeo.
Ne voglio parlare, perchè è una di quelle cose belle e interessanti di cui nessuno mai fa parola. Si tende a tenerla fra addetti ai lavori.
Ed è male: dovrebbe avere maggiore visibilità.
I cittadini europei dovrebbero sapere che c'è chi lavora per loro, seppure in silenzio.
Dorothy è un acronimo derivato dalla definizione stessa del Progetto, che in lingua suona così: 'Development Of RegiOnal clusTers for researcH and implementation of environmental friendlY urban logistics'.
Nella nostra bella lingua italiana, ciò significa: 'Sviluppo di Cluster regionali per la ricerca e applicazione di una logistica urbana amica dell'Ambiente'.

Devo dire che mi piace questo fatto, di prendere una lettera qui e una lettera là, e farci un nome da ricordare con facilità. Mica le iniziali, che son buoni tutti: delle lettere nel mezzo. Così il nome viene fuori in modo creativo.
Invece di 'Dorothy' poteva venire fuori VOGUE, tanto per restare in tema di moda.
Ed è solo un esempio.

In sostanza, mentre il mondo Europeo continua le proprie lotte politiche e di sopravvivenza, mentre la crisi morde e i cittadini europei, bene o male, tra malumori e gioie e cose di tutti i giorni in fondo alla giornata ci arrivano, un gruppo lavora per il miglioramento della qualità della loro vita.
Focalizzandosi ad uno dei suoi aspetti più importanti: quello della logistica. Urbana, per di più. Cioè, ai "trasporti nelle città"; con tutto il carico che questa espressione implica, a dispetto della sua brevità e semplicità.


Il progetto è teso a sviluppare il potenziale di innovazione e ricerca in questo settore. Partendo dall'analisi dello stato dell'arte in merito alle soluzioni logistiche delle città, ha l'obiettivo di definire delle Linee Guida comuni da adottare come standard Europei, e di creare soluzioni innovative, efficienti e sostenibili.
 



Un Consorzio, composto dall'Italia (Toscana), dalla Romania (Oltenia), dalla Spagna (Regione di Valencia), dal Portogallo (Lisbona e valle del Tago), è al lavoro. Partecipano, in ogni regione, sia Pubbliche Amministrazioni che imprese. Il coordinamento è ad opera della Fondazione per la Ricerca e l'Innovazione, Università di Firenze.

Io vi sono entrata in contatto grazie alla collaborazione con l'Università di Firenze, appunto. Ed è stato un incontro molto interessante. In genere non ho bisogno di motivazioni particolari per fare quello che devo: conosco il valore del lavoro, e il sapore buono che resta in bocca dopo una giornata produttiva.
Ma lavorare in questo ambito, per me, significa ricevere un 'plus' etico.
Che non ha prezzo.
Che volete, per certi versi sono ancora un'inguaribile romantica, a dispetto di anni e anni nei gangli delle officine, tra urli e scioperi, fiducia e inganni, incidenti e performance da star, promesse mantenute e mancate. E luuunghe (o brevi) pause caffè alla macchinetta automatica dietro al magazzino.
 

E se Dorothy Project è una perla da scoprire, altre perle, di respiro ancora maggiore e portata quasi epocale, ancora restano oscure al cittadino indaffarato, o ignavo (come direbbe Dante), o distratto, o semplicemente poco informato.
Alzi la mano chi sa che cosa è H2020, o che cosa vuol dire "smart city". Ma bene però: non ci bastano due parole in croce.
Giorni fa, ho intercettato un programma su RAI Scuola che ne parlava.
Full Stop. Per il resto, vuoto all'orizzonte.
Sarà che poco guardo la TV; sarà che anch'io, sempre in giro per la strada, su, in Veneto, in Emilia, in Friuli, me ne perdo parecchie. Ma era la prima volta che assistevo a una versione divulgativa dei fatti.
Come se quello che bolle in pentola non riguardasse tutti noi, grandi e piccoli.
Come se H2020 e la 'smart city' non fosse di nostro interesse.
E perbacco..

sabato 20 settembre 2014

Storia di F.

F è una persona che spiazza.
Nel tempo, si è rivelata molto diversa da come si presentava all'inizio. Non che si nascondesse; semplicemente, stava in guardia. Rimaneva professionale e abbottonato.
Poi, però, si è aperto.
Un regalo inaspettato.
F lavora in un'azienda di grandi dimensioni da una quindicina di anni. E non è un ragazzino.
- All'inizio, mi ha confidato, avevo voglia di lavorare, ma nessuna possibilità. Hai presente la 'Questione Meridionale'? Ho fatto la valigia e sono andato via: in Germania.

Si parla degli anni '70. Una vita fa.
Adesso c'è la crisi, e tutti noi sappiamo cosa comporta; allora non c'era, ma i numeri non erano così diversi da ora e il benessere,l'agiatezza, certo non toccavano a tutti.
Non erano toccati a F, per esempio. La cui famiglia ha origini semplici e per giunta è del Sud.

- Io all'eroina ho resistito, continua, e non lo so come ho fatto. Mio cugino per esempio ci è caduto. Ma in Germania c'ero andato senza di lui. Forse sta qui la differenza. Perchè lì, se avevi voglia, potevi migliorare. Ho imparato il tedesco, per esempio. E l'inglese. Partendo da zero, come operaio in catena.

Nel vedere il suo orecchino, ormai di dimensioni piccolissime, non immagineresti tanta proprietà di linguaggio, e un vocabolario così ricco. Infatti, non è da uno così che, seguendo i luoghi comuni, ti aspetteresti una buona cultura, e anche una certa grazia.

- E' lì che ho incontrato la mia compagna e avuto mia figlia. Poi ho deciso di rientrare, ed eccomi qua.


F adesso ha dei problemi di salute. O meglio, ne ha avuti. Infarto, malattie cardiache; tutte cose legate a stress, forse anche a malesseri esistenziali. Ma continua a lavorare, e con efficacia. Purtroppo, secondo ritmi propri, che ad alcuni appaiono lenti, troppo lenti.

- Il medico me l'ha detto: devi evitare gli affanni. Infatti non vado neppure più in trasferta; non all'estero almeno, e neppure in Italia, se è troppo lontano. Pensare che ho lavorato in Cina, in India, in Iran. Ma era un'altra epoca, ed avevo un altro livello di energia.

Per questo motivo, l'azienda gli ha assegnato responsabilità limitate, adesso. F tutto sommato l'ha presa bene. Non si sente degradato. Era un Generale, ed adesso è un Sottufficiale - forse solo un caporale.
Che per giunta non ha truppe da guidare.


- C'è un tempo per ogni cosa. Il mio, è il tempo della cura. Di me stesso, e del lavoro ben fatto. Le corse, non le faccio più

'Presto e bene non vanno insieme', diceva mia nonna;lo diceva anche mia madre. Nel passato, lo dicevano in molti. Adesso, almeno nell'industria, non lo dice più nessuno. Guai. Vige il motto 'grezzo e veloce', che è molto lean.
Attenzione: non sto dicendo che non sia corretto o non abbia un senso. Sto dicendo che 'grezzo e veloce' non sta nelle corde di F. La sua situazione personale ne è distante anni luce. E il suo sentire, avendolo ascoltato, non mi risulta incomprensibile.

F mi fa pensare alla signora in sovrappeso che ho incontrato qualche anno fa, in fila per una visita medica. I sandali troppo stretti per dei piedi in qualche modo sformati, un vestito rosso, del profumo intenso. Era appena uscita la notizia che per le donne il limite della pensione sarebbe stato spostato in avanti: a 65 anni,come per gli uomini.
Non so più come eravamo entrate nel discorso; mi disse: lavoro come aiuto in cucina, qui, in centro. Ogni volta che mi abbasso a prendere una pentola, mi scricchiolano le ginocchia. La notte, quando rientro a casa, stento ad addormentarmi per il mal di schiena. Ho appena compiuto 61 anni, e pensavo di esserci ormai. Non so proprio se ce la farò a continuare per altri 4 anni.
Mi chiedo: c'è da darle torto?


A livelli ben diversi, un chirurgo che ho conosciuto di recente, titolato, di reputazione, eppure ancora straordinariamente vero, mi ha confidato: dopo tanti anni di lavoro e di studio, sono contento di quello che sono riuscito a realizzare, di cosa ho costruito. Le mie giornate sono intense; neppure mi accorgo, a volte, di essere arrivato a sera. Recentemente mi hanno proposto un nuovo incarico, la guida di un centro specializzato all'estero. E' tutto da impostare, potrei costruire un'eccellenza da zero. Ma sai cosa ti dico? Ho già dato
La persona in questione si sposta di frequente all'estero, per cicli di lezioni e interventi vari, congressi inclusi. Quindi, non si sarebbe trattato di un qualcosa lontano dalle sue abitudini, o dalle sue corde.
Ma è stanco, evidentemente. Oppure le sue priorità stanno diventando altre, se già altre non sono.


La riflessione quindi si impone, almeno per me.
Ovvio che non siamo tutti uguali. Non lo sono le nostre professioni, le nostre condizioni di salute, il nostro stato generale. A parità di età, quello che abbiamo vissuto e la nostra personale struttura psicofisica marcano la differenza, anche dal punto di vista professionale.
Eppure forse c'è un filo rosso che ci lega, nelle varie fasi della vita. L'entusiasmo e l'incoscienza della prima giovinezza lo conosciamo tutti. Poi la voglia di emergere, infine quella di dare valore e senso ai gesti di ogni giorno. Le stagioni della vita. Eccetera eccetera.
Forse, dico. Non sono certa che il filo rosso valga per tutti, ma sospetto che accomuni molti di noi. Ne è riprova, e non frutto del caso, il fatto che nei bei tempi andati fossero i 'vecchi' ad insegnare ai giovani. I 'vecchi' sentivano così che la loro esperienza era servita; acquistavano senso, e valore, gli anni spesi. Anche, e soprattutto, nell'ambito del lavoro.



Per cui, proseguendo il filo logico:
1) adesso c'è qualcosa che non va. In azienda, per esempio, sono scomparsi i 'vecchi' che insegnino (e 'vecchi' lo si è prestissimo: quando si costo troppo) e mancano i giovani cui trasferire (non si assume, o si assume in modo flessibile, a tempo). I 'vecchi', adesso, se espulsi dal mondo del lavoro anzitempo, invece di insegnare passano il tempo a rodersi il fegato, finchè non trovano un nuovo posto, che forse è quello che dovrebbe ricoprire il giovane, a giudicare dai compensi.
2) adesso c'è un'esigenza diversa. I nuovi metodi introdotti di recente - per esempio la Lean - non favoriscono il processo di insegnamento 'tradizionale', perchè RIVOLUZIONANO di fatto il modo di lavorare, lo status quo,favorendo un tipo di insegnamento cui non tutti i 'vecchi' sono abituati (il coaching è relativamente nuovo alle nostre latitudini); salvo iniziative del tutto individuali, o altre eccezioni. Ma lo ripeto: se con l'aggettivo 'vecchio' si identifica la persona di 45-50 anni o giù di lì, il discorso tende a decadere, e vale piuttosto il caso 1), altresì detto "adesso c'è qualcosa che non va". 

Credo che dovremmo tutti fare mente locale alla questione.
Perchè 'vecchi' prima o poi, e a Dio piacendo, lo saremo tutti.

lunedì 8 settembre 2014

Forza, torniamo alle cose serie..


 Capisco che ci sia di meglio da fare, in questo scorcio di fine estate:
  • leggere un giallo leggero e fresco di Malvaldi (toscanissimo), o un noir raffinato di Ben Pastor (magari del ciclo di Martin Bora)
  • andarsene a una bella sagra (di porcini, di formaggio, di pesce appena pescato - un sempreverde)
  • godersi un po' di aria salmastra, forse senza pioggia, magari finalmente in panciolle sulla spiaggia
ma qualcuno lo deve fare, di pensare alle cose serie e tediose che ci aspettano, ora che riprendiamo a pieno ritmo: e questo qualcuno, oggi, sono io. Me la prendo io la patata bollente, me la sento.


QUINDI ADESSO PARLIAMO DI FMEA.
SCUSATE, MA VI TOCCA.
Sarò abbastanza breve, non preoccupatevi. Metto lì qualche concetto: a seminare spunti di riflessione, a strattonarvi e dirvi "ehi, tra poco magari tocca anche a voi scettici, fate mente locale!".
E cioé:

Noi diciamo la FMEA, femminile: perchè finisce per 'A'. Nella nostra lingua, sono rarissime le eccezioni, e ben conosciute (per esempio il nome "Andrea", maschile DOC; che in quanto tale mai ci sogneremmo di  utilizzare al femminile, come invece avviene in Germania, tanto per dirne una).




Perchè la FMEA finisce per 'A'? Perchè noi siamo pigri, o esterofili. Abbiamo preso l'acronimo anglosassone e pari pari lo abbiamo incorporato nella nostra lingua tecnica. Con la stessa disinvoltura abbiamo italianizzato termini inglesi come 'implement' o 'empowerment': l'uno è diventato radice a tutti gli effetti (implementare, implementazione) a dispetto del fatto che esistessero già fior di parole italiane a ricoprire lo stesso concetto (applicazione, realizzazione), l'altro è stato buttato dentro tout-court, senza che si coniasse una parola italiana equivalente, e con disdegno di tutte le perifrasi a disposizione - e sì che ne produciamo di neologismi, quando ci fa comodo. I Francesi, per esempio, hanno fatto diversamente: da loro la FMEA si chiama AMDEC. Non tiriamo fuori, adesso, il fatto che i Francesi siano supponenti o spocchiosi - lo so che in molti non li sopportano, anche se non capisco perchè (c'entrerà la testata di Zidane?): non sono loro le eccezioni, siamo noi. Prendiamo la parola 'computer': da loro si chiama ordinateur e in Spagna ordinador, qui il termine calcolatore è stato abbandonato da mo'. Siamo fatti così.



Perchè la FMEA è tanto poco popolare? Perchè suppone rigore. Perchè richiede impegno, almeno in fase iniziale, quando si parte da zero. I benefici cadono in secondo piano, e dire che sono notevoli: progettare un prodotto qualitativamente 'sicuro', industrializzarlo in modo che risulti conforme in produzione. Spostando il peso del lavoro sulla prevenzione - lo sanno tutti che 'prevenire', fra l'altro, costa di meno che 'curare' (oltre ad essere meglio, come dice il famoso detto).
E poi realizzare la FMEA è meno oneroso, direi quasi semplice, una volta che la si è acquisita come strumento e se ne è inziato un uso coerente, serio, razionale: consente e facilita la standardizzazione della progettazione come dell'industrializzazione, verso le migliori prassi aziendali. 



Come si ottengono i benefici della FMEA? Valutando i rischi, e ponendovi rimedio 'preventivo'. E qui dobbiamo fare i conti con la mentalità nostrana, che a caldo, a buoi scappati dalla stalla, scatena la caccia del colpevole (da trovare a tutti i costi); e poi dimentica. Da noi la prevenzione è poco praticata: poca manutenzione preventiva, per esempio, e molta riparazione a guasto; un giorno poi la macchina si sbraca giù e allora succede il pademonio: soldi da cacciar fuori, clienti che aspettano imbufaliti. Forse sarebbe stato meglio curarsene tutti i giorni un pochino, ascoltando i segnali e i sintomi: nessuna emergenza ci sarebbe stata, dopo,da gestire. Ma la prevenzione costa, e cacciar di tasca soldi che apparentemente non sono giustificati (dov'è il guaio cui riparare? Ancora non c'è!) può sembrare uno spreco - vedi come si ribaltano i concetti, a volte. Altro che Lean!


Quali ambiti tocca la FMEA? Era partita dai cardini industriali, niente affatto in sordina: la Progettazione di Prodotto, e quella del Processo Produttivo, lo abbiamo detto sopra. Poi si è allargata a macchia d'olio: la Macchina, la Supply Chain, e tutta una serie di altri campi di applicazione. Sondando la letteratura scientifica in merito grazie alle attività che ho in corso con l'Università di Udine, ho rilevato una frenetica attività di diversificazione della FMEA, che adesso esplora argomenti impensabili fino a poco fa (come la Lean), e si combina con altre tecniche (come il QFD) alla ricerca di effetti ancora più potenti. Negli ultimi anni, è come se lo strumento fosse stato 'scoperto' dal mondo scientifico; o forse soltanto rivalutato. Ma un analogo processo sta avvenendo, in qualche modo, anche nel mondo industriale. Che però ancora tituba e latita, spaventato, in molti casi, da quanto ho detto sopra: dall'apparente onerosità. D'altra parte, in questi tempi di crisi tutti parlano di rischi, e di gestione del rischio: il collegamento con la FMEA viene naturale, quasi spontaneo. A livello mentale, però: non ancora a livello fattivo, pratico. Nonostante gli standard internazionali, anche loro tirino da quella parte.

Riflettiamo sul significato del termine 'Qualità' per come è correntemente utilizzato. Se 'Qualità' significa 'rispondenza all'uso atteso dal Cliente', un prodotto di qualità è quello che è progettato in modo da rispondere alle esigenze del Cliente e fabbricato sistematicamente come conforme al progetto. In sostanza, la FMEA originaria consente questo a costo minimizzato, e l'esercizio vale la pena, specialmente se le esigenze del Cliente sono ben comprese e incorporate nella stessa analisi FMEA, magari dopo un bello studio QFD (personalmente, lascerei i due strumenti distinti).

Ecco, ho finito. Per oggi.
Me ne vado a fare ciò che devo.
Ma riflettiamoci su, con calma. Una buona FMEA vale davvero la candela.


venerdì 29 agosto 2014

Perchè è di questo che si parla..

 
.. ovvero, di far andare avanti il business.
Il lavoro.
La nostra vita.



E allora come si può accettare che ancora ci siano remore, dubbi sul da farsi? Come si può comprendere chi continua a parlare come un secolo fa - letteralmente - disquisendo di quanto sia male oggi e quanto invece fosse bene ieri?

Direttamente dall'ombrellone, da quella spiaggia dove quest'anno ho messo piede troppo poco,vi dico: semplifichiamo.
I concetti, i pensieri, le aspettative.
Diventiamo un po' più ZEN.


Seguendo alcune scontate e banalissime pillole di saggezza, per esempio queste:

1
Il lavoro della vita esiste. E' vero. Ma per qualcuno,e non per tutti. E' più importante che esista un lavoro, che non il lavoro della vita. La questione somiglia un po' a quella del Principe Azzurro, su cui si potrebbe aprire un capitolo, un intero libro a parte. O un'enciclopedia.


2
Se Tizio era peggiore di noi, e adesso si trova in posizione migliore perchè ha avuto fortuna - ovvero la sua Azienda non ha chiuso - non è la fine del mondo. Prendiamone atto e continuiamo per la nostra strada.


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Se Tizio era peggiore di noi e adesso invece si trova in posizione migliore perchè si è trovato un altro lavoro, smettiamo di dire che è stato fortunato e cerchiamo piuttosto di capire quali canali ha utilizzato, come ha fatto. La Fortuna aiuta gli audaci. O come ha scritto Mario Calabresi, la Fortuna non esiste (corollario: ce la costruiamo da soli, ogni giorno)



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Riflettiamo: davvero Tizio era peggiore di noi? Quanto davvero conosciamo le sue risorse?


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Se è vero che intorno ci sono molti casi negativi, aziende chiuse, capannoni semi abbandonati, è vero anche che non sono poche le aziende e gli imprenditori che resistono (facendo utili). Se sono davvero tante le persone che da un giorno all'altro perdono il lavoro, sono diverse anche quelle che, pazientemente, con metodo, ne trovano un altro, e poi magari un altro ancora, senza mai arrendersi.
Per cui, pur capendo quanto queste circostanze tristi mettano alla prova, e anche quanto sia necessario, in prima battuta, sfogarsi e dar via libera alla giusta rabbia, il mio invito è questo: prima possibile, non appena la nostra personale buriana interiore è passata, guardiamo al meglio e tiriamoci su il morale.
Esempi buoni ce ne sono: cerchiamo di trarne spunti e ispirazione per noi stessi.

Buona fine d'estate, o buon ri-inizio di lavoro, a tutti.
Ripartiamo con animo sereno.


martedì 19 agosto 2014

Storia di V..


V è una bella persona, calda ed empatica.
E poi è un'ottima professionista. Ho toccato con mano e posso testimoniarlo.
Per cui mi fa piacere parlarne qui, sul mio blog.



V è titolare di un'agenzia ed ha un socio. Sono affiatati ed è bello vederli lavorare assieme; o almeno, per me lo è stato.
V inoltre ha un marito e due bambini. Vi si dedica, e come molti ha una rete di supporto che le consente di lavorare, e intensamente, senza che nessuno ne risenta troppo.
La sua giornata è scandita da turni ed impegni di precisione millimetrica; ha però delle Jam Sessions - così le chiama - in cui si chiude fuori dal mondo, al riparo, e creativamente elabora le mosse successive, gli sviluppi che vorrebbe, i piani per i futuro.
Che poi discute e condivide con il socio.
"Sempre", sottolinea. Il patto è sacro.



Nel momento in cui vi sono entrata in contatto stavo pensando al mio business e alla struttura che intendevo dargli; per cui era importante confrontarmi, valutare, riflettere. Così, ho chiesto a V come è iniziata la sua attività, e come ha fatto le proprie scelte (socio, momento, linea di business: il primo, in particolare).
Le si sono illuminati gli occhi.


Oltre 10 anni fa, entrambi lavoravano per un'agenzia. Non per la stessa, però. Erano entrati in contatto per contiguità lavorativa e vi erano rimasti per affinità elettiva (le parole sono testuali). Più volte l'avevano buttata lì: "E se ci provassimo da soli?", lasciandosi andare con l'immaginazione a progettare un ufficio giusto fuori città, con un pochino di verde attorno; ma poi non ne facevano di nulla. Era come un bel sogno che stentasse a decollare.
E d'altra parte, volendo, non c'erano ragioni immediate che spingevano; per entrambi il lavoro c'era e non stavano affatto male, là dov'erano. La crisi, per intenderci, era di là da venire.
Però.
Però il desiderio restava. Continuavano a parlarne.


"Un giorno" mi ha confidato V "presi in mano la situazione. Noi donne decidiamo, c'è poco da fare. Gli dissi: ci vediamo al bar X alle Y in punto, vieni con l'agenda che faccio sul serio".
Così, si videro, decisero la data delle dimissioni, e cominciarono di fatto quel sodalizio che dura anche adesso.
Fu indubbiamente una decisione azzeccata.

Noi donne decidiamo, c'è poco da fare.
Questa frase mi risuona nelle orecchie.
Bella. E certo per V,in quel caso, vera. Ma non vera in assoluto. Nel mio mondo non sono le donne che decidono, ma gli individui. Cui a volte capita di essere donne, e a volte no.


Ognuno, d'altra parte, gestisce se stesso. Assumendosene la responsabilità in toto. Niente di più c'è da aspettarsi o chiedere, lo so; ma è bello che nel cammino professionale qualcuno ci accompagni, costruire qualcosa insieme.
Ed è questa la riflessione, il mio personale auspicio per me stessa, con cui chiudo questo seconda storia professionale. Una storia positiva.