sabato 3 ottobre 2015

IL LAVORO RITROVATO



Qualche giorno fa,in libreria,intercetto "Il lavoro ritrovato".
Lo apro e scopro che mi ero sbagliata. Avevo supposto male. Ritrovato, non da chi perde il lavoro,ma da chi viene licenziato per "giusta causa".
"Giusta" causa: nulla va dato per scontato, mai.


Copio dall'anticipo messo gratuitamente a disposizione sul sito dell'autore (http://www.pietroichino.it/?p=35841) il caso che più di tutti mi è balzato agli occhi: quello dell'infermiere violento.

"Non si deve licenziare l’infermiere che getta a terra e prende a calci un paziente
È un caso di cui si sono occupati i giudici romani. La causa riguardava l’infermiere professionale di un reparto psichiatrico che, dopo avere spinto a terra un paziente affetto da gravissima insufficienza mentale, aveva preso a colpirlo ripetutamente con calci al torace e allo stomaco; a una collega che lo aveva invitato a fermarsi aveva risposto di non averne alcuna intenzione. Questi fatti, addotti a motivazione del licenziamento, erano pacifici in causa: nessun dubbio che l’infermiere avesse tenuto questo comportamento. Ma il giudice ha annullato il provvedimento disciplinare. Perché, come si legge nella motivazione della sentenza del Tribunale di Roma 19 ottobre 2001,
“si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione ad un paziente particolare, che non integra alla luce delle circostanze del caso concreto neanche gli estremi del notevole inadempimento […] l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni […] non può giustificare quella che rimane una extrema ratio […]”.

Allora, qui si parla di qualcuno che, essendo stato licenziato per il fatto sopra descritto, impugna la cosa e va in tribunale. E vince la causa. E si prende un sacco di soldi, anche.

Io dico quanto segue:
  • perdere il controllo una volta è una cosa che può capitare. Penso a me stessa: se mi capitasse, cosa farei? Forse rovescerei una scrivania - non so, ipotizzo - mi metterei a urlare in modo che mi sentirebbero a 100 Km di distanza. Ma non credo che metterei le mani addosso a qualcuno (a parte che non sono Maciste). Massimamente se quel qualcuno fosse un paziente affetto da una gravissima insufficienza mentale.
  • io di mestiere faccio l'ingegnere-consulente; non faccio l'infermiere e non lavoro in un reparto psichiatrico. Per quanto anche le mie giornate non siano affatto rose e fiori, certamente lo lo sono molto più di quelle di chi è costretto a confrontarsi ogni giorno con la sofferenza psichica. So che lo spirito di sopravvivenza porta, nel tempo, gli addetti a una forma di "assuefazione" e distacco (ho in casa 2 medici, padre e fratello), ma forse certe volte una valvola può saltare anche agli "assuefatti" e distaccati. Il punto è che cosa si fa quando salta la valvola, e si perde il controllo. Non ci sono scrivanie da rovesciare, o tavoli, nei reparti psichiatrici?
  • con che coscienza si affidano pazienti psichiatrici a chi si è già dimostrato violento una volta? I pazienti psichiatrici sono deboli, delicati, ci vuole tutta la comprensione e la professionalità del mondo per gestirli. Come dovrebbe comportarsi un ospedale, in un caso del genere? Immagino varie soluzioni. La migliore, dal punto di vista politico: assegnare l'infermiere ad altro reparto, non sia mai che il caso in oggetto si dimostri tutt'altro che isolato. La peggiore, in realtà, considerando la faccenda nel complesso: un bel trasferimento in area meno problematica, una sorta di premio.
La vicenda, almeno per me, è di quelle scioccanti, che toccano la sensibilità e il cuore delle persone. Può fare notizia alla grande, se data in pasto ai mass media (strano che non sia stato fatto, piuttosto; o forse me la sono persa io). Va detto che il licenziamento di cui sopra risale a tempi in cui la parola stessa - licenziamento - era al limite del desueto; oggi, con il fiume delle persone che giornalmente viene espulso dalle Organizzazioni, magari in gambissima, e senz'altro a dispetto dei numeri sulla ripresa che circolano nei suddetti mass-media, la notizia ancora di più colpisce e stranisce.

Ma vorrei restare sul lato umano della questione, abbandonando quello lavorativo. Comunque sia andata, se fossi stata la mamma o moglie o sorella del paziente colpito, giudici o non giudici, avrei chiesto giustizia. Avrei fatto causa, organizzato un sit-in come ai vecchi tempi delle rivolte studentesche, non so: qualcosa.
Visto che di questa circostanza mi sono persa il lato mediatico (se c'è stato), non escludo che le suddette persone lo abbiano fatto a chiara voce.
 Il pensiero mi consola: loro, e il paziente, hanno tutta la mia solidarietà.

mercoledì 26 agosto 2015

QUESTO E' UN POST MOLTO SERIO



Questo è un post molto serio.

Ho lavorato in Acciaieria per 5 lunghi anni. Sporcandomi le mani in produzione e temprandomi con la sua durezza. Anche se è passato molto tempo, la sua lezione mi è ancora ben chiara.
Ho visto di persona almeno 3 incidenti gravissimi, e di altri, mortali, sono stata portata a conoscenza. Ho imparato moltissimo: dal punto di vista tecnico e umano. Ho condiviso difficoltà e alcuni successi. Ci ho cavato le gambe con onore.
Fino ad ora mi sono ritenuta fortunata: per una ragazzetta com'ero, quella è stata una ricca occasione per imparare; dura, ma necessaria a farmi crescere sullo stomaco quel pelo che mi ha aiutato negli anni a vivere senza troppi problemi il mondo del lavoro, e a tenermi sempre con i piedi ben in terra, con il senso delle proporzioni e della misura.

Adesso invece mi ritengo fortunatissima. Infatti sono in salute.

Perchè lo stesso, scopro, non è possibile dire di diversi dei miei ex colleghi, che anche più di me, hanno speso anni intensi, duri e magari poco gratificanti in quella stessa Acciaieria.
Lo scopro adesso, con raccapriccio. Con disgusto. Con un enorme senso di impotenza.

Inizio con F. Era uno dei miei. Un metallurgista esperto, poco più anziano di me, forse una decina di anni. Già da tempo è mancato: asbestosi. Per i non addetti: la malattia dell'amianto.
Continuo con P. Era diventato uno dei miei: un laminatore esperto, poco più anziano di me, probabilmente più giovane di F., ma anche così non fosse non importa. E' mancato pochi di mesi fa dopo due anni di sofferenze: un doppio tumore, al cervello e ai polmoni.
Finisco con B. Non era uno dei miei, ma un Soffiatore. Chi è del mestiere sa cosa vuol dire: addetto alla lavorazione primaria che trasforma la ghisa in acciaio (Convertitore). Anche lui, un tumore. In attesa di una cura sperimentale, non ha fatto in tempo a provarla.

Non sono i soli che hanno subito questa sorte.
L'elenco potrebbe continuare.

Non so in quale misura il lavoro in Acciaieria può aver influenzato le loro sorti. Nessuno ovviamente ha pensato a comunicarmelo, visto che io non sono nessuno e non ho nessun titolo. Però so di alcune persone che, presentando un'opportuna documentazione sullo stato di servizio, hanno ottenuto il pensionamento anticipato e sono riuscite ad avere vantaggi economici supplementari.
Persone ancora in salute.
Ciò mi fa pensare.

Il padre di una mia amica, ormai anziano ed ex operaio in quella stessa Acciaieria, ha penato per anni con tumori di vario tipo alla vescica, mai completamente risolti. Tuttavia è ancora vivo, pur nelle difficoltà. E grazie al cielo. Gli specialisti cui si è rivolto nel tempo glielo hanno detto chiaro: potrebbe entrarci il suo lavoro. Eccome.

Allora, io dico: vergogna. VERGOGNA.

Questo è un post molto serio. Lo ripeto.
E' dedicato a F., a P., a B., al padre della mia amica, e a tutti quelli che come loro hanno sofferto.
Io non sono nessuno ma di loro mi ricordo.

lunedì 27 luglio 2015

Spaccato di estate (con bollore)

 
Un po' come il sogno di una notte di mezza estate, di Shakespeariana memoria, ma molto di più.
Molto diverso in realtà.

Oggi parliamo di 'Job Description'. Qualcuno la chiama 'mansionario'.
E cominciamo con il chiederci a cosa serve.
  • Domanda: a cosa serve?
  • Risposta: a capire cosa serve.
  • Domanda: per far cosa?
  • Risposta: c'è scritto nella Job Description

 Ovviamente provocatorio, l'avvio di questo post. In realtà scherzoso.
La 'Job Description' - lo dice la parola - è la 'descrizione del posto di lavoro'.
A tutti i livelli.
Ci dice quali sono i requisiti necessari a ricoprirlo, il posto di lavoro, nonchè le responsabilità e attività che è chiamato a svolgere colui che lo ricopre.

Ricominciamo.
  • Domanda: a cosa serve la Job Description?
  • Risposta: a capire che cosa serve (per ricoprire la posizione descritta)
  • Domanda: per fare cosa (per svolgere quali compiti, per avere quali responsabilità?)
  • Risposta: c'è scritto nella Job Description (vedi sezione 'contenuti della posizione')

Bene. Adesso sappiamo di cosa stiamo parlando. 
Almeno a grandi linee.
Ma le domande non sono finite.
  • Domanda: e tu, Sandra, che c'entri con la Job Description? Mica sei delle Risorse Umane!
  • Risposta: ci mancherebbe altro. C'entro in quanto penso, lavoro, contribuisco a trovare soluzioni
  • Domanda: e in quale modo contribuisci, per quanto riguarda la Job Description?
  • Risposta: coinvolgendo i diretti interessati e i loro responsabili, nello scriverne di nuove e nel ranzare via qualche vecchio documento (sciatto, obsoleto) fatto ad uso e consumo di auditors o per altre situazioni una tantum. Nel convincere a mantenere la situazione sempre aggiornata. 

Adesso, un passetto in avanti.
 
Ricominciamo con le domande (diceva Eduardo: gli esami non finiscono mai):
  • Domanda: a cosa serve la Job Description?
  • Risposta: a misurare
  • Domanda (obiezione): eh no! Prima, per ben due volte, hai detto che serve " a capire cosa serve".
  • Risposta: vero. Ma adesso stiamo facendo un passetto in avanti e quindi le cose mutano, si arricchiscono, apparentemente deviano: serve a misurare. Anche.
  • Domanda: santa donna, a misurare cosa?
  • Risposta: quanto la persona X (Mario Rossi) è in linea con i requisiti della posizione. Allo scopo di individuare i gap e provvedere alla necessaria formazione (in aula, on the job, come vi pare e soprattutto come necessario)

Lo sento: un coro di "oooohhhhh" (chi cantava, qualche anno fa, che "i bambini fanno ohh"? ).
Qui entriamo in un campo minato; allungando un attimo la gittata, ci infiltriamo nel rischiosissimo campo della valutazione della performance del personale: su cui non mi soffermerò. Gli HR sono pagati per questo e hanno l'elmetto in dotazione. Io, avendo soltanto la penna, praticamente sto disarmata.

Adesso veniamo al dunque.
  • Domanda: dove ci vuole portare Sandra, in giornate così bollenti, con tutta questa popo' di introduzione?
  • Risposta: a qualche tempo fa. A qualche secolo fa (ma non molti). A una professione particolare.
Ritorno all'inizio:
  • siamo in estate
  • le aziende comunque continuano a funzionare
  • i cervelli ribollono nonostante l'aria condizionata (benedetta!) che attenta alle nostre gole.  
Il mio non fa eccezione. Continua ad elaborare ciò che vede e legge.
Ma con una vena leggermente alterata però.
Forse.

E quindi vi parla della figura professionale del boia.
 Avete capito bene: del boia.
Per come era intesa ai tempi della rivoluzione francese (1789) o giù di lì.
O meglio: intorno a quei tempi, a partire dall'alba del Medio Evo e per vari decenni ancora, direi un secolo e più. Finchè, almeno alle nostre latitudini supposte civilizzate, non è stata sostanzialmente rivista (abolita?).

Ed ecco la 'Job Description' del boia (dei "bei" tempi).
  • Scolarità richiesta: nessuna. Richiesta invece la provenienza familiare (i boia si tramandavano la professioni di padre in figlio, e si sposavano fra loro)
  • Esperienza richiesta: a giudizio del supervisore (training on the job praticato dal padre, con certificazione 'orale' del raggiunto livello di competenza - decideva lui e stop)
  • Contenuto della posizione
  1. manutenzione delle attrezzature (mica era un impiegato statale il boia di allora: erano sue la forca, le lame. In sostanza si trattava di un imprenditore, e quindi a lui spettava il compito di garantirne la perfetta funzionalità: l'affilatura, per esempio)
  2. primo pezzo valido - PPV (provare prima dell'esecuzione che la macchina fosse del tutto funzionante)
  3. evidenza del raggiungimento degli obiettivi (nel caso della ghigliottina, la testa mozzata veniva mostrata agli astanti)
  4. 5S (la pulizia del patibolo, la rimozione dei resti, erano a suo completo carico)
  • Compenso: non alto, e comunque sistematicamente corrisposto in modo che il committente (sperabilmente pubblico!), nella persona di colui che consegna materialmente in danaro, non avesse modo di toccare fisicamente il boia. Spesso il danaro veniva posto a terra, e da lì il boia lo raccoglieva. letteralmente: non sporcarsi le mani. Si trattava di un modo che faceva salvi tutti: il committente,che delegava a un "immondo" le azioni in realtà da lui stesso decise, e il boia stesso, abituato a sentirsi "immondo" (vedi punto 1: chi non era boia, con i boia non si imparentava. Erano i reietti).
Personaggi celebri che hanno svolto per anni, in maniera onorata, la professione: i signori Sanson. Un'impresa familiare (e non poteva essere altrimenti) prospera e rinomata.
Henri Sanson lasciò nel 1848 un libro di memorie, pubblicato da una casa editrice italiana solo nel 1925, con tutti i dettagli della professione; il quale in particolare si concentrava sull'operato nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Francese.

Il nonno di Henri fu colui che raggiunse il picco di produttività nel quinquennio 1789 - 1794: oltre 2900 esecuzioni effettuate (fra cui quelle di Maria Antonietta e re Luigi). Un vero recordo, credo (spero) rimasto imbattuto.
Ma anche questa professione, ironia della sorte!, presentava i suoi pericoli. Un figlio del recordman, nel mostrare una testa mozzata, si sbilanciò e cadde, morendo.
Un infortunio sul lavoro su cui non si aprì alcuna indagine, nè si fece clamore.
Erano altri tempi. L'INAIL, la ASL, la Polizia Giudiziaria, erano di là da venire.

Ritornando al dunque.
  • Domanda: dove ci vuole portare Sandra, in giornate così bollenti, con tutta questa popo' di introduzione?
  • Risposta: non lo so di preciso. A riflettere. 
Buona estate bollente a tutti !


 

giovedì 25 giugno 2015

PROBABILMENTE DOVREI SCUSARMI..


 .. probabilmente sì.
Sono stata a lungo assente e per molto tempo non ho scritto.
Banale dire che non ho avuto un attimo di tempo, che la mia professione mi impone tour de force geografici e automobilistici non da poco: tutto verissimo.
Ma se uno decide di aprire un blog, poi deve essere coerente. E rispettare le cadenze, leggere i commenti, interagire.
Quindi, rimedio.

Intanto, eccomi qui di nuovo.
Con una riflessione riguardo la reputazione.
No, non la reputazione sul web, una volta tanto: la reputazione tout court, nella vita professionale giornaliera. Quella che si ha in azienda, per esempio, dove si passano ore e ore ogni giorno.
Mi capita di incontrare situazioni aziendali poco felici, da questo punto di vista. Con voci poco piacevoli che serpeggiano fra le scrivanie, e anche risolini.
Qualcuno, magari non troppo simpatico, magari non giovanissimo e neppure particolarmente prestante o rampante, diventa lo zimbello. Non gli si sconta un errore, e molto tende ad essere classificato come tale.
Oppure, la persona in questione parla e gli altri, che non lo capiscono, concludono che è un buono a nulla, uno che - questo ho sentito con le mie orecchie - " a mangiare il panettone non ci arriva" (buona anche la variante "colomba"). Invece poi costui ne divora alquanti, di panettoni o colombe o dolci tipici regionali.


Io, semplicemente, mi chiedo a chi giova questo atteggiamento generale. E anche come nasca, e come sia tollerato o non scoraggiato. Sempre di più, constato che questi atteggiamenti si incontrano nelle realtà meno avanzate, dove i problemi ci sono eppure ci si tende a convivere, non so se con rassegnazione o con incoscienza (probabilmente entrambe). Certo non è mia intenzione generalizzare e mi scuso sin da adesso se così sembra. Ma questa è una cosa che proprio non mi piace.

Trovo che oltretutto si tratti di un atteggiamento poco proficuo. Chiaro che nelle relazioni interpersonali il fattore umano, la sintonia e la simpatia siano fondamentali perchè le cose vadano bene; ma qui si parla di lavoro, e al lavoro bisogna pensare, cioè a fare ciò che serve perchè coloro che ci pagano continuino - o ritornino - a prosperare, e non altro. Al bar, a casa, con gli amici, si hanno altri atteggiamenti, ci si prendono confidenze, si fa quel che si vuole: ma al lavoro bisogna unirsi affinchè il lavoro - appunto - progredisca. Fare di una persona uno zimbello non va affatto in questa direzione; parlarne esplicitamente male quando non c'è, o riderne, o fargli velatamente il verso mentre non guarda, in una parola "screditarlo", è certamente una gran perdita di tempo, un'inefficienza significativa. Oltre che una grave mancanza di rispetto.


Scusate, ma io sono un essere semplice. Amici e partner ce li possiamo scegliere; i colleghi, non sempre. Bisogna trovare il verso di conviverci e di fare il nostro meglio per lavorare insieme. Chi non ci piace molto non sarà colui che ci accompagnerà la mattina della domenica nelle nostre escursioni in mountanbike, o chi inviteremo ogni pomeriggio a prendere il caffè alla macchinetta automatica: sarà quello a cui ci rivolgeremo con rispetto quando il lavoro lo richiede, e con cui avremo cordiali rapporti comunque. Senza per questo diventare amici per la pelle per forza.

Per me, la chiave è una sola: rispetto. Se ne mostriamo verso gli altri, gli altri ne mostreranno verso di noi, prima o dopo. E' una legge di natura.
E poi, mi dico: invece di indulgere in questi esercizi di piccineria, pensiamo a lavorare. Concentrati e positivi. Magari provando a capire il prossimo, invece di tranciare giudizi.
Lo so, può sembrare meno divertente; ma ne vale la pena.

martedì 10 marzo 2015

LA CHIAMAVANO "PULIZIA"


 .. un tempo, sì. Ma quei giorni sono lontani.

Dopo, c'è stato chi la chiamava "housekeeping", una bella parola inglese, apparentemente trendy. Ma ormai il termine è obsoleto, vecchio come il cucco.

Adesso si dice "5S", e neppure è necessario essere tanto alla moda per parlarne con disinvoltura. Tanto meno serve esserne esperti.


Infine, ci sono quelli dell'ultim'ora. Quelli che le nuove tendenze le anticipano, le creano, Quelli che ne sanno una più del diavolo.
Per loro c'è sempre tempo, spazio e la massima apertura, a braccia spalancate.

Ed ecco che fa capolino il Management by Cleaning di cui vi ho già parlato in tempi non sospetti (vedi post https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=6972247911627026484#editor/target=post;postID=9154947894204274427;onPublishedMenu=allposts;onClosedMenu=allposts;postNum=35;src=postname ).

Ed ecco infine la più recente fra le ultime tendenze, quella che "spacca", nuova di pacca, fresca fresca: Marie Kondo. Direttamente dal Giappone, a noi curiosamente tanto vicino negli ultimi anni industriali.
 
 Marie mi colpì già a Novembre scorso, quando la intercettai su un D-Donna di Repubblica che mi era capitato fra le mani per caso, in ultima pagina (se vi va, dateci un'occhiata http://d.repubblica.it/casa/2014/11/25/news/riordinare_la_casa_decluttering_buttare_via_il_superfluo-2388416/ ).
Poi, presa dalla vita di tutti i giorni, qua e là a sgommare e a questionare, francamente mi era passata di mente. Ma ciascuno è figlio di ciò che fa (oltre che di ciò che mangia), per cui sgommando e guidando, nello scaffale di un autogrill, non lontano dall'analogo Management by Cleaning di cui sopra, ho trovato il suo best seller: "Il magico potere del riordino".
Mi sono buttata (si vive una volta sola!): e me lo sono comprato. Complice il prezzo non proibitivo.

La lettura mi suscita alcune riflessioni che vorrei condividere, al di là di ogni facile polemica.

Maria Kondo si qualifica come consulente domestica e tiene corsi dal titolo "lezioni di riordino e organizzazione per signorine", ma anche "lezioni di riordino e organizzazione per uomini d'affari". Apparentemente c'è uno scollegamento, nella sostanza invece no. Cosa li lega è un principio di base.

Non so se alle nostre latitudini ci sono signorine che si lascerebbero incantare da un simile corso; ma sono quasi certa che qualche sedicente manager lo si troverebbe, qua e là, disposto ad ascoltare. Le cifre richieste non so quali siano, ma so che Maria sta facendo fortuna.Attenzione, quindi.

Il principio di base suona più o meno così: riordinare per fare i conti con il passato e liquidarlo laddove non fosse più funzionale, per iniziare un modo di vivere essenziale e vicino a ciò che veramente siamo, per liberarci di ciò che non serve. Marie afferma che funziona anche sul lavoro, dove non agiamo essendo altri da noi stessi, guarda un po', ma essendo proprio noi stessi
 
Applicando il metodo suggerito, le persone trovano una propria strada, più che una propria felicità soltanto (come se fosse poco). C'è chi apre una nuova attività, come aveva sempre voluto, licenziandosi, e chi conclude più affari e con maggiori risultati, infatti; oltre a chi perde chili su chili e migliora la propria vita di coppia. Così afferma Marie Kondo attraverso le testimonianze che trascrive.
 
 Il metodo di Marie Kondo è tranchant: non si riordina un poco alla volta, dice lei, ma una volta per tutte. senza pericolo di tornare al caos iniziale. Risolutivamente

Mi chiedo che cosa sia il caos iniziale: a ognuno il suo. Secondo me, agli occhi di Marie, che deve essere stata una ben strana ragazzina, ostica e puntigliosa, il caos comincia con un calzino fuori posto, una penna spostata. Lontana dal concetto di molti di noi. Ma non dalla sua cultura, e qui sta il primo punto notevole: Maria ne è, ovviamente, imbevuta.

Marie Kondo però, per come si presenta, è un inseme unico di cultura e personalità. La cultura da sola non basta. Gli episodi personali che racconta ne tracciano un ritratto inquietante. Da ragazzina, avvicinatasi all'idea del riordino, racconta di aver impiegato il tempo della ricreazione in cui tutti i suoi coetanei andavano a scalmanarsi a riordinare i libri sugli scaffali, e anche a controllare il contenuto dell'armadio delle scope nel corridoio, scuotendo la testa perchè vi mancava un gancio a S; e non per eseguire un compito o un ordine, ma per il proprio piacere. Oppure, si legge nel libro che operava in famiglia per riordinare - leggasi 'buttare' - anche le cose dei propri familiari, suscitandone le ire. Insomma, per Maria il riordinare e buttare è una passione personale, prima che culturale.
 
 La cosa che mi fa pensare a quelli - che a Firenze si chiamano 'pisseri' - che entrano in casa tua e arricciano il naso per gli odori, o che si vantano per quanto sanno bene organizzare (ne conosco un paio insopportabili), o che stanno sempre a pulire e non vogliono animali perchè sporcano (mentendo a se stessi però: 'peccato, perchè davvero li amo tanto'). Mi fa pensare a un tizio che conobbi anni fa, il quale riportò in stireria un intero set di camicie perchè la di lui sorella, incaricata della loro pulizia (e anche su questo ci sarebbe da riflettere), aveva osato piegarle, peraltro impeccabilmente.

Il metodo, nei fondamentali, ricorda pericolosamente le 5S. Le due fasi del riordino suggerite da Maria sono infatti le seguenti: 1) valutare se buttare un oggetto oppure no 2) decidere la collocazione di quell'oggetto. Niente di nuovo sotto il sole, per i 5S pratictioners. In questo, il tratto culturale giapponese è fortissimo, evidentemente. Escludo che la signora, infatti, abbia lavorato in Toyota. Ma chissà.

Il libro si dilunga su una quantità di dettagli davvero interessanti dal punto di vista culturale. Io non amo gli haiku, per esempio (non sapete cosa sono? cliccate qui http://it.wikipedia.org/wiki/Haiku) ma da altri aspetti della cultura giapponese sono incuriosita. Nel libro, il paragrafo sugli idoli è davvero intrigante. Così, scopro che le ragazze giapponesi collezionano amuleti per una quantità di buone cause, tra cui spicca quella di trovare un buon partito (così è detta male: un marito, un amore). Che vengono loro regalati da madri nonne zie e quant'altro - Marie, alle ragazze, suggerisce di far pulizia anche di questi, e di creare, a scrematura avvenuta, un piccolo altare domestico sull'ultimo ripiano della libreria. Ohibò, davvero un ottimo senso pratico.


Concludo con una delle frasi più rivelatrici che ho trovato nel libro: "in Giappone si sente dire spesso che fare le pulizie di casa e far brillare i sanitari porta fortuna". Al suo confronto, le osservazione di Maria sulla qualità dell'Economia Domestica insegnata nelle scuole e sugli stessi diplomati in Economia Domestica (estinti alle nostre latitudini), semplicemente impallidiscono.
Sta qui, nei fondamenti culturali di questa frase, l'humus che ha portato al 'Management by cleaning', alle 5S e via dicendo.
Non essendo una specialista in materia di cultura giapponese, mi scuso con gli esperti se al fenomeno altri fattori avessero contribuito, di cui ignoro l'esistenza; sono pronta a fare ammenda. Ma riconoscerete che un filo logico, un innegabile legame c'è.
Che purtroppo, o fortunatamente, da noi invece latita.


        

martedì 3 febbraio 2015

IL PARAGONE NON E' IMPROPRIO


No, non lo è. Il paragone non è improprio.
Ed è facile capirlo, adesso, in tempo di elezioni.

Di cosa parlo? Di questionari di soddisfazione del personale, Di indagini di clima aziendale. E mi scuseranno gli esperti nel campo se utilizzerò termini poco scientifici, inadatti, non professionali.

Le elezioni politiche servono a determinare chi governerà il paese, o la regione, o il comune: chi governerà qualcosa che ci riguarda. Con le elezioni esprimiamo il notro parere: ci piacerebbe governasse questo signore qui, proprio lui, o questo partito qui, i cui ideali ci corrispondono. I cittadini prendono posizione. Tramite le elezioni possono dire: non tu, ma lui. E di conseguenza, chi governa quel 'qualcosa' può cambiare, un altro può arrivare. E questo è il potere, l'essenza fondante della Democrazia.



La finalità delle indagini di clima Aziendale, dei questionari di soddisfazione del personale,  non è affatto la stessa. L'azienda non è certo una Democrazia: chi governa quel 'qualcosa' che ci riguarda sta lì per motivi altri rispetto a una scelta deliberata del 'cittadino aziendale' (ovvero, dei dipendenti, in tutte le loro possibili forme di contratto). Sta lì perchè scelto dalla Direzione, dalla Proprietà o da altri, in quanto ritenuto la persona adatta a ricoprire quel ruolo e a fornire i risultati richiesti
La finalità dell'indagine di clima è quella di comprendere il modo in cui il 'cittadino aziendale' vive l'azienda, valutarne il gradimento, considerare i segnali che ne derivano e intraprendere delle azioni migliorative (se, quante, quali: secondo giudizio del committente, a suo rischio e pericolo).


Da qui, il sospetto che paragonare le elezioni politiche e le indagini di clima aziendale - o i questionari di soddisfazione - sia del tutto improprio.
In effetti, secondo me non lo è e le due questioni presentano un punto essenziale di comunanza: il fatto che una 'popolazione' esprima un'opinione, e che con questa opinione si debba fare i conti in termini di azioni.
La cosa risulta evidente, in particolare, quando si procede all'analisi dei dati.

In questo momento sto ragionando sulla questione per un supporto in merito che mi ha chiesto un Cliente. Le mie considerazioni sono le seguenti, in breve:
  • il dato della mancata partecipazione è importante, in ambedue i casi. Chi non si esprime in politica lo fa per una quantità di motivi, che vanno dalla protesta al senso di totale impotenza; chi non si esprime in azienda lo fa per questi motivi, o anche per paura (di essere riconosciuto, di rimetterci in qualche modo)
  • il dato della mancata partecipazione è la prima informazione da valutare: se è molto elevato, ha poco senso dare risalto ai risultati di chi si è espresso. Chi si è espresso non rappresenta la popolazione nella sua interezza, nè ne è un campione rappresentativo; piuttosto, rappresenta la parte non ancora 'persa' della popolazione, che quindi - potremmo dire 'per definizione' - è mediamente più favorevola all'Azienda. Darvi risalto corrisponde, in qualche modo, a 'falsare' la situazione reale: al di là della pura statistica, è un fatto che andrebbe sottolineato. 
  • un po' di ricordi: come andava alle elezioni studentesche del liceo? Votavano in 3, e quei 3 se la suonavano e se la cantavano. Di fatto nessuno, fra gli studenti, davvero contava su di loro, nè le loro decisioni o voci avevano alcun peso.
  • se il dato della mancata partecipazione è elevato, o elevatissimo, cosa sta nella pancia di chi non si esprime bisogna capirlo, non c'è alternativa. Forse, nel questionario di soddisfazione del personale si potrebbe aggiungere una sezione 'perchè non partecipo alla votazione', o simile, Breve, semplice, a risposta suggerita, in cui almeno una parte dei silenti potrebbe dire qualcosa, e far capire. Sarebbe già un'informazione in più. Ma probabilmente non servirebbe a molto di fronte a situazioni incallite. 
  • Se la situazione aziendale è critica, mi chiedo se l'indagine di clima è lo strumento più adatto da utilizzare, o se è il solo - la risposta agli adetti ai lavori, ma resta il dubbio sull'opportunità di proedere in tal senso quando per esempio c'è un'azione di mobilità, CIG o altro.

In conclusione, e mi fermo qui: il non detto, in certi casi è più pesante del detto. Qualcosa da non trascurare, e anzi, da tenere in massima considerazione.
Riflettiamoci: io, nel mio piccolo, lo sto facendo

mercoledì 14 gennaio 2015

IL MANAGER DAL PUGNO DI FERRO

 
 Ai miei tempi c'era Petrus. Chi se lo ricorda?
"Petrus, l'amarissimo che fa benissimo!", e giù un gran pugno da una mano di ferro. Di armatura medievale.
 
Era un Carosello. Cercando ne ho ritrovato in YouTube un esempio che è una chicca: guardatelo, ci spiega anche Carlo Magno ( https://www.youtube.com/watch?v=Yjdx-_bTgHM)

Comunque, quando giro in LinkedIn e trovo tutte quegli aforismi, frasi e slides che parlano del manager (cattivo) contro il leader (buono), a me viene in mente il pugno di ferro, e quindi Petrus. Puntuale.. BUM! Arriva la botta.

In effetti nella mia vita a contatto con le aziende, di Petrus ne ho visti parecchi; forse, di Carlo Magno meno.
   
Ma in fondo, chi se ne importa di come si comportava Carlo Magno? A memoria d'uomo, lo stile di leadership di Carlo Magno non è mai stato utilizzato nei corsi di formazione per giovani manager; e nemmeno in quelli per giovani consulenti (ammesso che esistano).
Ma forse bisognerebbe ripensarci. Scava scava, magari si trova anche lì qualche spunto brillante per tener sveglie le platee sonnolente o annoiate, oppure per creare un nuovo mito visto che il Patron della Virgin (sir Richard Branson) e Steve Jobs stanno diventando un po' scontati.

Di Carlo Magno, era grassa se i libri di scuola ti elencavano le battaglie o se ti dicevano del regno dei Franchi ed Aquisgrana. Tutto appariva così lontano. E poi, a noi monellacci interessava più che altro suo padre Pipino il Breve (con un nome così), se proprio non riuscivamo ad evitare del tutto l'argomento.

Anche adesso, grande e grossa che sono, mi pare che le cose stiano messe allo stesso modo. Carlo Magno e i Franchi, con Aquisgrana e Pipino al seguito, non se li fila nessuno. Petrus invece la fa da padrone. Ancora.
O meglio: la fa da padrone il suo pugno di ferro.
E qui torniamo al manager (cattivo), che a forza di botte sui tavoli (BUM!) porta avanti le cose, contrapposto al leader (buono) che le cose le porta avanti - e bene - in modo del tutto diverso (civile, umano, ed efficace soprattutto).
  
Io voglio uscire da questo dualismo manager/leader, sui cui fondamenti teorici altri sono più preparati di me, e dire una cosa semplice, banale: di pugni di ferro si può fare anche a meno.
Mica si comanda così.
Mica si motiva, sensibilizza, in una parola 'si porta a bordo' la gente così.


Io questo ho visto, e ancora vedo, nella mia vita di tutti i giorni a contatto con le persone, le fabbriche, le officine e i loro bei problemi di produttività, efficienza, qualità: molti pugni di ferro (Petrus), poca collaborazione.
Ma i pugni di ferro generano reazioni scomposte e sterili.
Per esempio, chiacchiericci e maldicenze verso i capi, unica difesa da parte di coloro che dal pugno di ferro sono colpiti, e non trovano altre armi. Chiacchiericci e maldicenze che rimangono lì, in basso, montando come la panna fino a trasformarsi in leggende metropolitan-industriali. Sistematicamente smentite dai fatti, oppure del tutto inutili. Ma tanto, tanto efficaci come valvola di sfogo.



Per esempio, arroccamento. O paura. Davanti al pugno di ferro c'è chi dice di sì a prescindere, annullando ogni spirito critico, creativo o partecipativo, con l'unico intento di evitare problemi o ulteriori pugni. Ma c'è anche chi resiste ad oltranza. Chi si mette di traverso. Chi magari si butta malato pur di non fare.
 
Dopo anni e anni in Azienda, soprattutto come 'interna' ma anche come consulente, ho imparato che gestire le persone è davvero una delle sfide più difficili.
Qualunque sia l'approccio scelto, ci sarà sempre una qualche difficoltà e molta, molta energia da spendere. Ma ci sono dei presupposti di buon senso che non bisogna trascurare e una cosa è certa: il pugno di ferro non è uno di questi. Non come stile di leadership tout-court, a 360°.

D'altra parte, ognuno ha la sua storia e la sua sensibilità. E anche la sua suscettibilità.
Che gli restano incollate addosso nell'open space davanti al PC, o mentre controlla i pezzi, o durante l'assemblaggio, e guidano sotto sotto le sue azioni a dispetto dei corsi di formazione cui viene spedito, e delle letture manageriali che gli vengono consigliate. E anche delle lunghe salite domenicali in mountan-bike per mantenersi allenato e smaltire lo stress.
Non c'è niente da fare, l'essere umano resta il punto centrale.
E che questa sia la chiave, se si è un capo (manager o leader che dir si voglia), non si può non essere coscienti.