giovedì 31 ottobre 2013

Quando,di preciso,un prodotto è "di qualità"?


Bella domanda.
Mica facile.
La Qualità di un prodotto tende a restare una materia oscura. Ancora, dopo fiumi di inchiostro versato, e mantra dispiegati al vento.
Perchè rimane legata alla soggettività, e ciascuno ci mette del suo.
Per me, la miglior definizione è data da questa formula:

                                                      Q = P / E

essendo:
Q --> il grado di Qualità percepito in relazione a un certo prodotto
P --> le prestazioni di quel prodotto (PERFORMANCE)
E --> ciò che ci si aspetta dal prodotto in questione, appunto, in termini di performance (EXPECTATIONS)

Se è vero, come ci hanno insegnato, che la Qualità (di un prodotto) è legata anche alla sua "rispondenza all'uso", occorre innanzitutto definire quale ne è l'uso. Ovvero, quali sono le funzioni che ci aspettiamo da quel prodotto; che vogliamo, che sognamo. E poi: quanto bene dovrebbe svolgerle, queste funzioni, il prodotto? Capiamolo. E così è fatta: abbiamo definito le nostre aspettative. Sia P che E sono chiare, adesso; Q lo è di conseguenza (matematica docet)
Facile, vero? Anche no: troppo soggettivo. Dipende da come il prodotto viene percepito dal mercato. Mettiamo che il cliente A si aspetti una cosa, e il cliente B un'altra. La performance del prodotto una è; per cui magari A trova che il prodotto sia una figata, e B che non sia niente di speciale. Mentre il prodotto è lo stesso.
La questione si placa abbastanza se isoliamo a una fascia di clienti, intesi avere tutti le stesse aspettative. O aspettative simili. Perchè lo percepiscano di Qualità, il prodotto - di cui è chiara la E - deve avere una P con i controfiocchi, e che cavolo. Altrimenti è un prodotto di Qualità standard.

Eh, ma la qualità del prodotto bisogna costruirla. Mica viene da sè. Bisogna fare tutta una serie di cose, con qualità, per ottenere una Q=P/E che si rispetti.
E allora ci si rimboccano le maniche, si va di fabbricazione prodotto a disquisire, controllare, impostare: non si molla l'osso, pervicaci stiamo sul pezzo. Siamo persone serie, noi.

Raramente invece, chissà perchè, si associa la Qualità a ciò che sta a monte rispetto alla produzione; rispetto ai reclami del cliente, o all'iper-misurazione dei prodotti non conformi nella speranza che di un po' conformi, infine, se ne trovino.
Be', il passaggio non è proprio uno di quelli logici. Manca un pezzo;un pezzo tutt'altro che secondario.
E qui arrivo all'APQP; molto poco praticato, o praticato - per esempio nell'Automotive, sua terra nativa - ma non con tutti i necessari crismi; però se praticato - correttamente - di indubbio vantaggio.
E arrivo pure a monte, al signor Kano, alla voce del bistrattato cliente (slogan a parte) e guarda un po' anche alla Casa della Qualità, ritornando quindi - in una specie di colpo di reni - punto a capo, all'inizio: Qualità è (anche) fare esattamente il prodotto che serve, che il cliente vuole/desidera/sogna, conscio o meno, ovvero massimizzare (con tutte le opportune considerazioni di costoil rapporto P/E.

Personalmente, credo che questo sia un punto enormemente importante; e parimenti sottovalutato.
Innanzitutto: glielo vogliamo chiedere, al cliente, cos'è che vuole? E lo vogliamo stare ad ascoltare per bene, orecchie ed occhi aperti, a catturare anche quello che dice fra le righe? E' lui che deve comprare, bisognerà pur saperlo cosa gli serve!
Smettendo di immaginarselo. Perchè così ci capita di fare: immaginare che cosa il cliente vuole, fare ciò che ci siamo immaginati convinti di essere bravissimi e infallibili, e poi stupirci se il prodotto non vende.
Eppure, è quasi banale. Peccato che poi, nella pratica di tutti i giorni, ci se ne dimentichi.
Segnamocelo a lettere grandi sul taccuino: la voce del Cliente è un patrimonio. Oro, oro puro per l'Azienda. E' il cardine principe della Customer Satisfaction, che in realtà va ben oltre il risolvergli i problemi che gli abbiamo causato.

E qui mi aggancio anche all'Innovazione. 
Che c'entra l'Innovazione con tutto questo?
C'entra, eccome.
Da dove partirà mai, l'Innovazione (**), se non dal fatto - rivoluzionario - di lavorare di cervello e di cuore per prevenire i desideri del cliente e renderli fattibili,se del caso, tramite tecnologie nuovissime? Insomma, tutti hanno in mente Steve Jobs (stay hungry, stay foolish) e i risultati che Apple ha riportato in seguito alla sua gestione. Tra le tante cose rilevanti, l'esistenza di un piano di prodotto che andava molto avanti, e che letteralmente aveva creato un mercato laddove nessuno sospettava ce ne fosse spazio, è stata probabilmente la cosa che ha avuto maggior impatto sull'immaginario nostro. Lasciando da parte la mediatica creazione di un mito "Steve Jobs" postumo: dal punto di vista della salute e del decollo del business, il fenomeno valeva uno studio approfondito. Ad altri la parola, più e meglio informati di me - ma si noti che si Innovazione ben fatta si trattava.

E qui sta il punto, tornando - con un ulteriore colpo di reni all'indietro - alla Qualità. Al QFD, al signor Kano, e guarda un po' anche a me, che negli anni 90 ero ero stata flashata dal cosiddetto fattore "wow!" un po' a pera cotta (sciocca ragazzetta che altro non ero).
Ricordo l'esempio dell'alzacristalli elettrico, per come me lo raccontarono a suo tempo: non era affatto scontato, all'inizio, che si pulisse anche il vetro, azionandolo, per cui era stato un wow - salvo poi diventare un want e infine un must, come accade a tutti i wow che si rispettino.
A quasi tutti, almeno: ricordo, ancora prima, un'auto parlante. Inizialmente: simpatica, divertente, ogni comando era un commento che ci lasciava senza parole. Un vero fattore wow. Ne aveva una un tale che conoscevo, facevamo a gara a salirci. Peccato che poi ci venne a noia; a noi come anche al tale, che a ben vedere aveva un maggior livello di esposizione. La voce suadente venne disattivata. Non mi risulta, inoltre, che oggi il mercato ne sia pieno.
Cito poi un altro caso personale, quello dei sedili riscaldati. Sono stata dirigente molti anni, avevo un'auto aziendale appartenente a una fascia precisa, per policy aziendale. Ma io i sedili riscaldati non li ho mai, nè utilizzati, nè apprezzati, e non certo perchè il freddo mancasse. Non so come si chiami una funzionalità di prodotto non aspettata, che c'è, ma se non ci fosse sarebbe uguale all'occhio del cliente; anzi, lo so: è un'over-quality, qualcosa che il cliente nè si aspetta, nè è disposto a pagare. Ma nel mio caso, il problema era  la mia intrusione in un segmento di mercato estraneo; al resto del target, probabilmente i sedili riscaldati piacevano un botto.

A tutto questo penso, dopo aver assistito a un interessante convegno ATA (Associazione Tecnica dell'Automobile) sui trend nella tecnologia Automotive e sui concetti di mobilità, con la partecipazione attiva di Aziende del settore e Università. Di Innovazione, qui, ha relazionato un global first-tier, nella persona tra l'altro di un ex collega, illustrando il proprio approccio. Ecco la conferma del mio sentire più profondo in materia: Innovare è di fatto un processo, che valorizza e disciplina la creatività a favore di findings concreti. Cui dedicare risorse.
A questo penso avendo incontrato lo scorso fine settimana - in tuta, il cane al guinzaglio - un altro ex collega, di cui ho penosamente ascoltato le difficoltà, per un'Azienda in cui il problema dell'innovazione di prodotto, ma anche della qualità del medesimo, è abissale: moltissimi esuberi sono stati annunciati, tempi cupi si prospettano all'orizzonte.
A questo infine penso, guardando al lavoro svolto da una mio buon contatto, la cui Società si occupa di supportare le Aziende nel finanziamento pubblico a iniziative di innovazione R&D, o di fornire indicazione di partner già in possesso delle tecnologie necessarie.

Insomma, questo intendevo dire: facciamo prodotti di qualità, ma facciamoli sul serio, impegnandoci su tutta la catena dei processi a soddisfare il cliente. Facciamo sì che si 'innamori' del nostro prodotto. E scendendo prosaicamente sulla terra, guardiamoci intorno, analizziamo gli esempi positivi che troviamo (ce ne sono ancora), sia in termini di Innovazione che di Qualità, attrezziamoci con gli strumenti più adeguati, e infine, speditamente procediamo.

(**) A proposito di Innovazione: non solo tecnica e tecnologia. Anche nel servizio al Cliente. Magari mi metterò a citare qualche esempio, prossimamente. Comunque, ancora là torniamo: ascoltiamola, la Voce del Cliente, e bene. Capiremo molto.

domenica 13 ottobre 2013

Accanimento terapeutico (sul prodotto)


Il prodotto che vendiamo è il nostro biglietto da visita.
E' noi stessi: quello che riusciamo a fare, la summa delle nostre competenze. Al di là di ogni leva di marketing che utilizziamo, compresa l'eventuale presa emotiva che riusciamo a fare, è innanzitutto - e logicamente - il prodotto che parla di noi.
Eppure, non sempre questo concetto è così chiaro. Oppure: è chiaro nelle intenzioni, e meno nei fatti.

Iniziando dalla famosissima, strombazzata Customer Satisfaction, alzi la mano chi sente di aver fatto tutto,ma proprio tutto quello che era in suo potere per centrare il prodotto sulle esigenze del cliente; di averlo fatto con un'analisi seria e oggettiva di quello che il cliente (o il segmento/mercato di riferimento) esplicitamente richiede e implicitamente desidera senza quasi accorgersene; di averlo fatto traducendo uno per uno tutti i punti chiave ricavati come sopra, in elementi fisici costitutivi del prodotto stesso, o del suo sistema di contorno (imballaggi, per esempio). Alzi la mano chi lo fa sistematicamente.
Intendiamoci: sono sicura che c'è chi lo fa, e bene. So anche che farlo è tutt'altro che facile, e che capire cosa davvero il cliente/mercato eccetera richiede è attività delicata che implica allocazione di risorse e tempo. Ma il punto non è da poco. E il gioco vale la candela.

Poi, c'è il passo successivo: anche lui non da poco, tosto. Far sì che il prodotto venga fuori esattamente come lo vogliamo, e che sia pronto per quando il cliente lo vuole. Se davvero abbiamo capito che cosa davvero il cliente valorizza, e vuole, ed è disposto a pagare; se sappiamo dove andare ed abbiamo capito anche come andarci per arrivare in orario, allora facciamolo. E assicuriamoci strada facendo che è proprio lì che stiamo andando, e non altrove. Magari ci prende la voglia di deviare, imbocchiamo una scorciatoia che porta vicino (facciamo prima!): ma vicino non è uguale, per un prodotto vicino il cliente/mercato non è disposto a pagare, gli manca quel quid che tanto gli piaceva, non è proprio la stessa cosa.
Quindi: pianifichiamo il percorso. Controlliamo che stiamo andando al punto e non in un altro, cronometro alla mano. Passo per passo.

Banale, eh?
Non proprio. A dirsi, ma non a farsi. Le scorciatoie sono all'ordine del giorno.
Perchè non abbiamo ben compreso il prodotto che il cliente/mercato vuole, e quindi interpretiamo, modificando prestazioni e funzionalità strada facendo verso versioni più sostenibili.
Perchè la stretta è - nelle aziende - sul tempo e sui costi, e in nome di ciò all'occhio interno dell'azienda pare giusto sacrificare qualcosa dell'essenza e della conformità del prodotto stesso a quanto ci si era riproposti (o meglio, a quanto il cliente/mercato avrebbe desiderato). In qualche modo, una rivisitazione in chiave moderna e industriale del vecchio detto 'apparire, non essere'. Come poi il cliente/mercato la prenderà, appare al momento meno importante. Chissà perchè.

E il povero prodotto?
Diventa un cruccio. Mannaggia, si vende poco, meno di quanto avevamo previsto. Ma stai a vedere che questi Commerciali, questi fighetti del marketing l'hanno sparata grossa. Eh, sempre così: a loro i proclami, a noi la dura realtà di  progettare e fabbricare. Con tutto lo sforzo che abbiamo fatto. Ci venissero loro, qui, a vedere com'è.
Diventa un assillo.
Senti, che facciamo, rivediamo un po' com'è fatto, questo oggetto qui? Magari con due mosse riusciamo a fargli fare X (durare di più, consumare di meno, essere esteticamente più gradevole) come avevamo detto all'inizio; come fai a dire di no subito? Provaci, almeno. Dopo, dopo lo vediamo quanto costa. Sì, lo so, siamo tutti molto impegnati, le risorse sono poche per tutti. Ma intanto proviamoci. Una soluzione facile, pratica, immediata. Ho capito: se c'era, questa soluzione, l'avevamo già attuata. Ma proviamoci. E i costi di sviluppo così lievitano (senza che nessuno li contabilizzi).
Oppure: colpa della produzione. L'avevo detto io che doveva essere ben lucido, l'oggetto: guarda tu come te lo fanno, quei disgraziati. Sfido io che non lo compra, il cliente - è lui il fighetto, gli piace ben lucido. A disegno io ce l'ho scritto: ben lucido. Abbiamo fatto fare fuori un campione e glielo abbiamo consegnato: voglio dire, più di così.. E la produzione: noi ben lucido come dite voi non ce la facciamo a farlo. I nostri impianti non sono progettati per farlo così. O meglio, ce la facciamo, ma facendo un sacco di scarti, e riprese, e con costi che non ci possiamo permettere, non ci stiamo dentro. Gli Acquisti: abbiamo provato a chiedere fuori, ma nessuno ce lo sa fare, ben lucido come volete voi!  O meglio, ce lo fanno, ma abbiamo trovato un fornitore a 300 km, che ha il suo lead time, e inoltre costa un botto, non ci stiamo dentro. E la qualità: chiariamo cosa vuol dire ben lucido, quanto davvero lucido deve essere, per risultare conformemente ben lucido? Morale, alla fine: va bene, ho capito, continuiamo a farlo in casa, e controlliamolo al 100%, e scartiamo tutto quello che non va bene; e tra quello che scartiamo, facciamo poi un'ulteriore cernita per vedere che cosa possiamo salvare, come dire, guardiamo che cosa è brutto brutto, che cosa è solo bruttino e in qualche modo possiamo farlo digerire al cliente, quante storie; lo farà la qualità, accidenti, è il loro mestiere, lo sapranno loro che vuol dire ben lucido, no?
Diventa un accanimento terapeutico sul prodotto:  di concezione e sviluppo (tentare soluzioni postume, riprogettare) e di produzione (re-industrializzare se possibile - spesso non lo è; oppure controlli su controlli, con effetti nefasti sui costi, sui tempi, sulla puntualità di consegna e sull'efficienza). Cose che tutti noi un giorno o l'altro, nella vita industriale, abbiamo sperimentato.

Ma il prodotto, signori, il prodotto non è un'entità a sè stante che si materializza come un fantasma di colpo, mandato da chissà chi e chissà perchè; non è un qualcosa che sorge dal nulla e indipendentemente dalla nostra volontà. Il prodotto è figlio di un processo. Anzi, di due processi:

  • per la sua concezione: del processo di sviluppo prodotto e processo produttivo (bada bene, messi insieme, parzialmente e virtuosamente sovrapposti)
  • per la sua realizzazione: del processo produttivo stesso (che deve essere condotto come pianificato,e gestito)

Ben eseguendo i due processi di cui sopra, otterremo il prodotto che ci vuole.
L'attenzione deve essere sul processo di cui il prodotto è figlio, gli effetti benefici sul figlio ricadranno; e qui, mi viene in mente una frase biblica: le colpe dei padri ricadono sui figli. Come no, in questo caso è verissimo.
Altrimenti si tratta di accanimento terapeutico sul prodotto e sappiamo, sappiamo dalla vita di tutti i giorni e per altre esperienze di ben diverso impatto, che i suoi effetti tendono a essere limitati; al contrario dei costi, che sono alti.
Meditiamoci. Facciamo tesoro delle nostre esperienze (impariamo la lezione, altresì detto lesson learnt).

Firmato:
una persona pratica, che insiste, nonostante le sia capitato anche di parlare al vento

venerdì 4 ottobre 2013

Reti,relazioni,contatti (e relative distorsioni)


E' un'epoca social, la nostra, in cui la rete, i contatti contano moltissimo.
Per capire, per condividere informazioni, per restare con il naso allerta e annusare il nuovo che avanza, o come dicono gli Psicologi, lo zeitgeist (lo spirito del tempo) che inizia a manifestarsi. Per scovare opportunità di business, per fare affari.
In fondo, le tendenze vanno cavalcate - ad ognuno la propria,la più conveniente, la migliore -  ed è sempre stato così; la novità è che oggi abbiamo gli strumenti per anticiparle, e anche per modellarle (chi ci riesce, almeno: i top influencers). Come si fa a non approfittarne?

Qualcuno obietta che non ha tempo.E capisco, perchè il tempo è sempre tiranno. Bisogna ricavarselo, costa. Io stessa soffro di questo problema.
Ed è l'unica giustificazione che comprendo. A patto che non diventi una scusa per restare chiusi nel proprio guscio. Ricordiamoci che socializzare è anche vitale, interessante, ottimistico. Empatico.

Quello che non capisco, invece, è come si fa a lanciare il sasso e ritirare la mano. A chi, a cosa serva.
E arrivo al punto.
Ho avuto uno scambio con un mio contatto LinkedIn. Anzi: la persona in questione mi ha approcciato per chiedermi un favore, e nel contempo il link. Come mi abbia scelto, non lo so; do per scontato che un criterio l'abbia seguito. Comunque, mi riteneva in linea con le proprie necessità, evidentemente.
Pur non conoscendolo, ho acconsentito alla richiesta di supporto. Mi sono informata di cosa avesse bisogno, ho dato la mia disponibilità ad approfondire. Per puro spirito di networking, gli ho proposto di conoscerci di persona, visto che la sua è una zona in cui mi trovo spesso ad operare e a frequentare. La persona stessa mi aveva proposto di chiamarla al telefono fornendomi un numero: mi era sembrato un ulteriore passo logico e certo non avevo intenzione di incastrarla in una riunione fiume, si sarebbe trattato di un breve incontro conoscitivo e giusto quando avrei avuto occasione ancora di passare di là.
Bene: a fronte di tale proposta, e di un tentativo (abortito) di telefonata a quello stesso numero che mi era stato indicato, la persona in questione si è clamorosamente ritirata, dicendo che non ha alcun interesse nell'incontrarmi, nè nell'approfondire in generale. Gli interessava che rispondessi alla sua richiesta di supporto e basta, ha dichiarato. In totale contraddizione con quanto aveva comunicato, volente o nolente, a partire da quel numero di telefono, da me non richiesto.

Spero non ci sia bisogno di sottolinearlo, ma onde sfrondare preventivamente ogni dubbio, chiarisco che il mio era un gesto soltanto professionale,sono ben lungi dall'andare in giro ad adescare o circuire persone con la scusa del lavoro. E che diamine.
Gliel'ho anche esplicitamente sottolineato, a costo di sembrare pedante. Sulla mia integrità e serietà non transigo.

Per cui non ho capito com'è che il sasso sia stato lanciato: la mano, come dire.. è sparita.
Mentre il sasso è rimasto in mano a me.
Io ho proceduto con quanto mi si richiedeva - non grande cosa, in realtà - per coerenza. E per serietà.
Mi sono detta: il problema è suo. E ne sono convinta.

Ma l'episodio mi richiama qualcosa del passato, e mi invita a riflettere.
Qualche anno fa, percorrevo a piedi una strada del centro storico. Era buio, i lampioni illuminavano poco. Camminavo sul marciapiedi. Avevo appena voltato l'angolo quando vidi  una moto che procedeva velocemente e rumorosamente verso di me; anzi, vidi il suo grosso fanale, che mi abbagliò. Fu questione di un attimo: di lì a poco, la moto precipitò a terra con grande sferragliare. Aveva fatto tutto da sola.
Essendo buio, la strada era deserta. Il conducente non si rialzava e quindi mi precipitai lì per soccorrerlo; gli chiesi se andava tutto bene,gli offrii il mio aiuto. Per tutta risposta, questi si tolse il casco, mi puntò gli occhi in faccia e disse: "Sei stata tu!". E cominciò a gridarlo: "Sei stata tu! Sei stata tu!". Stava benissimo, evidentemente.
Io, rimasta inizialmente interdetta, cominciai a rispondere, ma lui si era alzato in piedi, la sua voce era alterata e rischiava di soverchiare la mia. Cominciava ad accorrere gente. Per fortuna un signore prese la mia difesa e in un attimo mi scagionò. Per fortuna. Altrimenti, in assenza di testimoni, non so che avremmo fatto, magari mi sarebbe capitato come a quel tale amico di amici che, precipitatosi a soccorrere, la mattina presto, un'auto precipitata in un canale, si è trovato in tribunale accusato di essere colui che ce l'aveva fatta finire dentro. Una storia che si trascina da anni.

L'esperienza con la moto ha una forte analogia concettuale con quella del sasso e della mano di cui sopra. In ambedue, infatti, la mia azione aveva una finalità di aiuto e supporto (positiva), mentre la reazione da parte dell'altro è stata negativa, di incomprensione (sasso & mano) o di attacco (moto).
In sostanza: ho offerto positività e ottenuto negatività.
Verrebbe dunque da dirsi: se l'esperienza insegna, basta offrire positività. Basta dare disponibilità. Stop.
Invece no, non bisogna dire basta. A parte le potenziali accuse di omissione di soccorso, certo non mi tirerò indietro la prossima volta che vedrò qualcuno a terra; nè mancherò di rispondere alle richieste di supporto professionale, anche se vengono da persone che non conosco de visu, e specialmente se non sono particolarmente impegnative. Ovviamente per quanto posso e se sensate.

P.S.: in una giornata come questa, di lutto nazionale per i gravi fatti di Lampedusa e dintorni, forse il finale mi è venuto un po' drammatico. Apologise.