domenica 9 luglio 2017

Le regole


 Lo spaccato di estate impone una doccia rinfrescante, di quando in quando.
E così anche Sandrina ieri se n'è andata a fare un tuffo in piscina.

Certo che preferisco il mare. Ma con il fine settimana non è cosa, le strade sono intasate e le code chilometriche. Già ne faccio troppe durante la settimana, dal venerdì alla domenica preferisco non stressarmi. A volte, questo vuol dire essere stanziale e godersi casa. Una specie di lusso.

Comunque.
A bordo piscina è prescritta la cuffia. Scoccia anche me indossarla, ma è un provvedimento igienico e lo rispetto. E poi mica fa piacere essere apostrofati dal bagnino di turno davanti a tutti.
Ma ieri c'era la calca e il bagnino, anzi, i bagnini erano presissimi a scoraggiare i tuffatori e gli schizzatori seriali, quelli che neppure ti vedono e a dispetto dell'affollamento gli pare di essere soli, neppure fossero su un atollo, con tutto che mancano le palme.

Quindi, a bordo piscina c'era un tizio senza cuffia che sciacquettava. A un certo punto si illumina tutto, approccia e si mette a chiacchierare con due silfidi sul biondo, occhiali a goccia e bikini fashion, già nere come la pece a inizio luglio. Le quali la cuffia ce l'avevano, a parte qualche ciocca birichina che spuntava.
Una gli fa, a un certo punto: "E tu la cuffia?"
Lui: "Guardati in giro, ti sembra che la cuffia qui la gente se la metta?"
Io, che origliavo casualmente, essendo a mia volta a bordo piscina, do un'occhiata lunga: ne avessi visto uno senza! Tutti cuffiati. Eccetto il bagnino, ovviamente, che aveva il suo bel daffare con dei bambini ai gonfiabili.
L'altra, che forse aveva guardato come me: " Ma veramente.."
E lui la interrompe. Attacca un pippone sulle regole in generale, e sulle cuffie in particolare. Ci butta un paio di battute salaci (e le due giù a ridere), vira sulle tasse, e ribalta completamente la prospettiva: sono gli altri che non rispettano le regole, non lui. Il fatto che lui non indossi la cuffia esce completamente dalla digressione e dalla discussione. Parla di quanto gli italiani in massa abbiano il vizio di ignorare ogni regola, pontifica su quanto invece accade nei Paesi stranieri, che le regole le rispetti eccome, altrimenti lo vedi che ti succede. L'immancabile discorso sulle tasse in America, che se non le paghi fili in prigione, mica come qui.
E le due che gli pendevano dalle labbra. Che non lo interrompevano. Che non argomentavano. O che forse avevano troppo caldo per mettersi a discutere - e come non capirle, una discussione di principio con 37°C sotto il sole non si augura a nessuno.

Infine, a digressione (o pippone) finita, lo scuffiato saluta e sciacquetta altrove, restando ovviamente senza cuffia. Le due si allontanano, la scena va in dissolvenza.

E a me viene in mente di andare dal bagnino e dirgli di perseguire quel tizio. Di fargli una multa, di cacciarlo via dall'acqua.
Ma poi lo guardo, il bagnino, tutto sudato nella sua canottiera con il logo della piscina, con il fischietto e un nugolo di persone che gli passano correndo quasi sui piedi da infradito, e ne ho una profonda comprensione. Una tenerezza che sa quasi di pena. Grande come quella che provo per i vari inservienti accaldati che ti accompagnano agli ombrelloni, che li aprono e chiudono, che incatenano i lettini neppure sedercisi un po' su fosse peccato mortale di quelli da pena eterna,  hai da pagare per servirtene, cara mia. Ragazzi appena diplomati, o laureati, oppure senza titolo e tanto chi se ne frega, un lavoro c'è da farlo e in estate questa piscina va benissimo, richiama un sacco di gente, lavoro ce n'è, il problema è l'inverno, che c'è meno bisogno di personale e i ragazzi sono fuori, aspettano, cercano e non sempre trovano.

Insomma, questo è il racconto dell'inizio di estate. Un'estate che sarà caldissima e piena di storie

mercoledì 17 agosto 2016

I corsi e ricorsi storici


Corsi e ricorsi storici.
Il buon Giambattista Vico, per chi se lo ricorda dai tempi del liceo.
La Storia tende a ripetersi, mutatis mutandis, ovvero, con i correttivi del caso, dovuti al cambiamento delle condizioni al contorno.

Ed ecco che andiamo a ri-scoprire Charlotte Bronte, scrittrice della metà dell'800, famosissima lei e la sua famiglia al tempo, interamente composta di scrittrici che hanno prodotto opere come Cime tempestose (chi non ricorda, oltre al film relativo con Montgomery Cliff, la canzone di Kate Bush?) e Jane Eyre (ben due film prodotti negli ultimi anni, uno più bello dell'altro).
 Donna non da poco, la nostra Charlotte, con una vita costellata da disgrazie e lutti che adesso giustamente ci farebbero rabbrividire, incluse le drammatiche circostanze della sua fine, ma che all'epoca purtroppo rasentavano la normalità, essendo malattie adesso curabilissime sorgente inevitabile di lutti. Donna non da poco e attenta ai tempi, alla società, come traspare dai suoi scritti.
Una casa editrice low cost, e contemporaneamente una casa editrice high cost, nei mesi scorsi hanno ripubblicato, a prezzi molto diversi, molti romanzi dell'800, soprattutto inglese. Vi segnalo "Shirley", ed è di questo che parlerò. Non tanto per le sue peculiarità letterarie e narrative, quanto per gli aspetti industriali che vi sono descritti. Da cui appunto traggo evidenza dei corsi e ricorsi storici di Vichiana memoria.
Giambattista Vico, un tipo sveglio.

La storia si svolge in Inghilterra all'epoca di Napoleone; quindi, diciamo all'inizio dell'800. Le condizioni politiche erano come segue:
  • in Europa (la parte che ne aveva conquistato) Napoleone aveva imposto il "blocco", ovvero il divieto di acquistare merci provenienti dall'Inghilterra, suo mortale nemico  - un chiaro gesto politico
  • l'Inghilterra (che contraccambiava di cuore: Napoleone era chiamato "il mostro") aveva di conseguenza imposto al proprio interno il "controblocco", ovvero il divieto di vendere all'Europa - un'altrettanto chiara risposta politica
Le guerre, all'epoca, erano disastrose, in termini di vite umane, per chi vi partecipava direttamente, ovvero soldati cavalli eccetera, compreso il loro inevitabile seguito; le persone "normali" che vivevano in città e fuori dalle aree di battaglia non rischiavano direttamente di essere uccise in azione, come invece purtroppo accade adesso (i bombardamenti mica c'erano), ma correvano pericoli maggiori del consueto di morire per fame, per esempio, viste le implicazioni pratiche della guerra.
Nella storia di cui parliamo, le ragioni politiche pesano: l'economia in Inghliterra è di fatto bloccata. Le merci prodotte non circolano. Gli imprenditori sono con l'acqua alla gola e rischiano il fallimento, e a nulla vale la loro voce presso il Governo: Napoleone prima di tutto, la sua sconfitta.
Ed ecco qui il primo parallelo con la realtà odierna: mutatis mutandis, alcune decisioni politiche oggi hanno pesanti implicazioni sull'economia. Sappiamo di Aziende in forte difficoltà. Vedasi, per esempio, il blocco delle importazioni in Russia (e leggetevi un esempio interessante di reazione - hlink

Tra i protagonisti c'è un industriale tessile, Robert Moore. E' un uomo che viene dal Continente (Belgio) e quindi paga lo scotto di essere straniero. Si trova sull'orlo della bancarotta per la situazione politica del Paese, e anche per la difficoltà di introdurre le novità tecnologiche con cui, da imprenditore illuminato, è convinto che risolleverà le proprie sorti.
Il fenomeno è storicamente documentato, e io me lo ricordo dal liceo: l'introduzione dei macchinari nell'industria tessile tra la fine del '700 e l'inizio '800, corrisponde alla cosiddetta Prima Rivoluzione Industriale, che coinvolse anche il settore metallurgico.
Fino a quel momento le attività erano state svolte manualmente da frotte di operai che avevano una vita di fatiche e stenti, ben misere, ma tuttavia con un salario che consentiva loro di mantenere in qualche modo famiglie normalmente molto numerose. Con l'introduzione dei macchinari, il numero di addetti necessari calò drasticamente, e veramente ci fu chi pagò di persona, morendo per fame.
Nacque quindi una reazione furibonda contro le novità tecnologiche. I nuovi macchinari venivano assaltati e distrutti dagli operai esclusi, che erano tanti e avevano seri problemi di sopravvivenza, sperando in questo modo di arrestare il progresso tecnico e ripristinare le condizioni precedenti. Cosa che ovviamente non avvenne. Il fenomeno è identificato storicamente con il termine "Luddismo", dal nome di Ned Ludd, il primo inglese che, a fine '700, distrusse un telaio meccanico per protesta contro il suo impatto sociale. C'è chi dice che il buon Ned in realtà non sia mai esistito, essendo di fatto un eroe mitologico del suo tempo (tipo un Superman dell'epoca). Per chi vuole approfondire, consiglio il seguente link
Nel romanzo, Moore acquista i suoi bravi macchinari, pur nelle difficoltà economiche; durante il trasporto verso la fabbrica vengono assaltati e distrutti dagli operai, che apertamente lo odiano. Moore denuncia il fatto, e le autorità puniscono i colpevoli. Nessuna comprensione sociale: ricordiamoci che sono tempi di alte, chiare e sancite differenze di classe. Come conseguenza Moore viene assalito con un tentativo di omicidio dagli operai, e resta a lungo tra la vita e la morte.
Ed ecco qui il secondo parallelo con la realtà odierna: mutatis mutandis, il rischio di absolescenza dei lavoratori attuali, con la cosiddetta Industria 4.0, è altissimo. Anzi, più che un rischio è ormai una certezza. Le condizioni, adesso, sono già quelle del romanzo in questione: scarsa, scarsissima domanda e manodopera più o meno specializzata disoccupata, seppure, almeno per il momento, mediamente capace di mangiare (a parte coloro che non arrivano alla 4° settimana, i cosiddetti nuovi poveri). Le novità tecnologiche in atto, riassumibili nel paradigma dell'Industria 4.0, sono però del tutto rivoluzionarie e dietro l'angolo. Molto se ne parla, anche in termini trionfalistici, e riempiendosene la bocca, ma troppo poco si parla dell'impatto sociale inevitabile. Tra tutti i proclami, pare a me che questo aspetto sia non poco tralasciato. Come si reagirà da parte degli esclusi quando saremo nel pieno dell'Industria 4.0 e le riserve accantonate da genitori e avi vari saranno terminate? Occorrerebbe porri il punto adesso e provvedere.


Tra gli operai di Robert Moore ci sono bambini. Se ne parla quasi con affetto. Le regole per la loro assunzione e gestione sono del tutto nelle mani del padrone, che può comportarsi come una specie di secondo padre benevolo ma severo, o essere un'autentica carogna. Il nostro, nel romanzo, è benevolo per fortuna. Robert è un duro, d'altra parte, ma sa giudicare le persone ed è un brav'uomo
Ed ecco qui il terzo parallelo con la realtà odierna: mutatis mutandis, il lavoro minorile non è ancora sconfitto. E' vero, nelle nostre civiltà occidentali non è permesso impiegare personale inferiore a una certa età (15 anni in Italia), e se lo si impiega minorenne, sono in vigore leggi e restrizioni a sua tutela. Ma acquistando beni molto a buon mercato "made in" Paesi lontani, il rischio che favoriamo il lavoro minorile di sfruttamento è alto. E' una questione centrale nella cosiddetta CSR (Corporate Social Responsbility), di cui si sono fatte paladini sensibili, negli ultimi tempi, anche le Case Automotibilistiche: la nuova ISO TS 16949 - così pare - dedicherà spazio a questo tema, e l'AIAG (la Società delle case automobilistiche americane cui ormai fa capo anche la ex-nostra FCA) ha pubblicato uno standard specifico ad essa dedicato.

Robert Moore sopravvive, questa è la buona notizia. E si risolleva dalla condizione di imprenditore prossimo al fallimento: dopo aver tentato, praticamente a casaccio, il matrimonio con una ricca ereditiera che lo respinge, quello che risolve è la decisione del Governo inglese di eliminare il "controblocco". Le merci possono circolare di nuovo e il mercato riprende. Tra parentesi, può pure permettersi, adesso, di impalmare la ragazza povera di cui è da sempre innamorato (nota speciale per i romantici..).
Ed ecco qui il quarto parallelo con la realtà odierna: mutatis mutandis, etc etc. Questo vorrei dire, ma invece non dico: mancano appieno le condizioni. Se si tornerà sopra a decisioni politiche che oggi hanno pesanti implicazioni sull'economia, una parte del problema si risolverà, ma rimarranno problemi strutturali. Adesso il mercato è globale e lo sappiamo tutti, così come globale è la cosiddetta crisi, che alcuni danno come in via di risoluzione, e che altri invece considerano un nuovo status quo permanente, una nuova condizione cui tocca abituarsi e fare la bocca.

Io non so come stanno le cose in realtà, ma ho una mia propria precisa idea; nessuno d'altra parte ha la sfera di cristallo, nè io nè altri. Tuttavia non è questa la sede per voli pindarici e fantasie, per cui mi asterrò da ogni ulteriore commento in merito.
Rimane invece l'invito a riesaminare il passato, le sue vicende e implicazioni, e a trarne spunti per il futuro, mutatis mutandis. Anche un romanzo datato, letto sulla sdraio in riva al mare o all'ombra di un masso in alta montagna, può degnamente servire all'uopo.
Buona fine delle vacanze...!

venerdì 8 aprile 2016

LINEE GUIDA PER MIGLIORARE


Eccomi qua, sono tornata.
Mi scuso per l'assenza, mi scuso per tutto. Diciamo che ho avuto un picco di lavoro.

E già che ero sotto picco, ho osservato bene.
Vedendo un sacco di cose che meriterebbero libri, enciclopedie, colossal hollywoodiani, saghe tipo soap opera.
Ho voglia di parlarne, e allora comincio da una cosa semplice, laterale, tangente: gli stage in azienda ai fini di tesi di laurea.

Ai miei tempi - e di acqua sotto i ponti ne è passata tanta - non usava così spesso e le Università erano piuttosto distanti dalle Aziende. Le tesi erano sperimentali (come nel mio caso: e quanto ci detti di cazzuola e pulizia nella canalina di prova!) oppure teoriche. Chi vi lavorava stava per conto suo, generalmente, con il mondo del lavoro aveva contatti dopo, quando inizava a cimentarvisi come vero "lavoratore", con tanto di cartellino da timbrare eccetera, come del caso.

Io però, nel mio piccolo, ho avuto a suo tempo la mia occasione di stage con tesi finale; non ai fini di una leurea, ma a conclusione di un progetto fatto dall'Azienda che già mi pagava (poco, ma mi pagava!).
In sostanza, ero già dentro; la mia occasione nasceva da una cosa che era piuttosto in voga, allora, presso le Aziende grandi e strutturate, che fossero efficienti o meno: il programma di sviluppo dei "giovani potenziali".

Allora: giovane io lo ero, senz'altro; e forse anche potenziale (ma amavo denifirmi cinetica..!). Così iniziai il programma.
Eravamo un centinaio di giovani ingegneri e, facendola corta, dopo un mega master molto bello fummo dispersi in gruppetti nei singoli stabilimenti produttivi per il cuore del programma stesso: lo stage.
Il mio gruppetto, fatto da 3 persone, fu inviato in un sito storico in cui c'erano oltre che cultura e competenza, anche un discreto numero di grovigli personali e organizzativi con cui subito dovemmo fare i conti.
Anche noi dovevamo studiare e approfondire un certo tema, con lo scopo finale di formire LINEE GUIDA PER MIGLIORARE; avevamo chi ci seguiva e personale di assoluto spicco dell'Organizzazione (i "piani alti") a cui riportare, sia periodicamente che per la tesi finale.
Facemmo del nostro meglio, devo dire, e tirammo fuori la nostra analisi con le suddette LINEE GUIDA.

Ma che fatica, e quali animi infiammammo senza volere! Pensate che qualche tempo fa, a distanza di un abisso di oltre vent'anni, uno degli animi di cui sopra, incontrato per caso in un bar, ebbe a ritornare sull'argomento e a ripetere le proprie rimostranze riguardo a quanto era stato riportato! Si ricordava addirittura le parole, una per una.
Il reale valore aggiunto del lavoro e delle LINEE GUIDA? Zero. Che io ricordi, mai più si fece menzione del nostro lavoro nei lunghi anni che passammo tutti e 3 in quello Stabilimento, e a ragione, dico io, visto che le LINEE GUIDA di cui sopra erano, come dire, un po' ingenue. Rileggendole adesso (le ho ritrovate la settimana scorsa, in fondo a un baule), fanno davvero sorridere.

Perchè racconto tutto questo? Perchè la hystoria non è magistra proprio di niente.
Ovvero, non sempre la storia insegna (al di là della lesson learnt - o learned - che nelle Aziende si va giustamente proclamando; e non confondiamo il sacro con il profano).
Da cosa derivava lo scarso valore aggiunto del nostro lavoro di tesi finale? Dalla nostra inesperienza: se è vero che occhi "nuovi" vedono cose che occhi assuefatti magari non colgono più, è anche vero che tali occhi "nuovi" devono sapere dove guardare. Non era esattamente il nostro caso (ovviamente, essendo tutti freschi di studi e imberbi). Inoltre probabilmente eravamo stati un po' manipolati da questo e da quello, con l'obiettivo di non risultare screditati da 3 ragazzetti aventi visibilità e contatti con i suddetti "piani alti".

Adesso vengo al punto: alla luce di quanto sopra, che speranza può avere un ragazzo che deve preparare la tesi di laurea in Ingegneria Gestionale, o Meccanica, o che so io, di fornire all'Azienda in cui fa lo stage, sensate LINEE GUIDA PER MIGLIORARE come elemento sia centrale che finale della propria tesi di laurea? Nessuna: per tutti i motivi sopra esposti. E anche per la privacy, per il fatto che l'Organizzazione in cui si muovono per la tesi non ha alcuna voglia - giustamente - di fare brutta figura con estranei, e anche perchè chi segue il o la tesista non ha poi così tanto tempo da perdere o voglia di mettersi, eventualmente, in cattiva luce nell'Organizzazione stessa puntando il dito. Insomma, per tutta una serie di ragioni logiche, naturali, deviate e psicologiche insieme.

E allora la domanda è: i professori che inviano questi ragazzi nelle Aziende, e poi vogliono delle LINEE GUIDA PER MIGLIORARE come "summa" delle loro tesi, lo sanno? Lo hanno capito?

Al di là di ogni finalità didattica che immagino stia dietro all'idea in sè, me lo auguro proprio.

sabato 3 ottobre 2015

IL LAVORO RITROVATO



Qualche giorno fa,in libreria,intercetto "Il lavoro ritrovato".
Lo apro e scopro che mi ero sbagliata. Avevo supposto male. Ritrovato, non da chi perde il lavoro,ma da chi viene licenziato per "giusta causa".
"Giusta" causa: nulla va dato per scontato, mai.


Copio dall'anticipo messo gratuitamente a disposizione sul sito dell'autore (http://www.pietroichino.it/?p=35841) il caso che più di tutti mi è balzato agli occhi: quello dell'infermiere violento.

"Non si deve licenziare l’infermiere che getta a terra e prende a calci un paziente
È un caso di cui si sono occupati i giudici romani. La causa riguardava l’infermiere professionale di un reparto psichiatrico che, dopo avere spinto a terra un paziente affetto da gravissima insufficienza mentale, aveva preso a colpirlo ripetutamente con calci al torace e allo stomaco; a una collega che lo aveva invitato a fermarsi aveva risposto di non averne alcuna intenzione. Questi fatti, addotti a motivazione del licenziamento, erano pacifici in causa: nessun dubbio che l’infermiere avesse tenuto questo comportamento. Ma il giudice ha annullato il provvedimento disciplinare. Perché, come si legge nella motivazione della sentenza del Tribunale di Roma 19 ottobre 2001,
“si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione ad un paziente particolare, che non integra alla luce delle circostanze del caso concreto neanche gli estremi del notevole inadempimento […] l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni […] non può giustificare quella che rimane una extrema ratio […]”.

Allora, qui si parla di qualcuno che, essendo stato licenziato per il fatto sopra descritto, impugna la cosa e va in tribunale. E vince la causa. E si prende un sacco di soldi, anche.

Io dico quanto segue:
  • perdere il controllo una volta è una cosa che può capitare. Penso a me stessa: se mi capitasse, cosa farei? Forse rovescerei una scrivania - non so, ipotizzo - mi metterei a urlare in modo che mi sentirebbero a 100 Km di distanza. Ma non credo che metterei le mani addosso a qualcuno (a parte che non sono Maciste). Massimamente se quel qualcuno fosse un paziente affetto da una gravissima insufficienza mentale.
  • io di mestiere faccio l'ingegnere-consulente; non faccio l'infermiere e non lavoro in un reparto psichiatrico. Per quanto anche le mie giornate non siano affatto rose e fiori, certamente lo lo sono molto più di quelle di chi è costretto a confrontarsi ogni giorno con la sofferenza psichica. So che lo spirito di sopravvivenza porta, nel tempo, gli addetti a una forma di "assuefazione" e distacco (ho in casa 2 medici, padre e fratello), ma forse certe volte una valvola può saltare anche agli "assuefatti" e distaccati. Il punto è che cosa si fa quando salta la valvola, e si perde il controllo. Non ci sono scrivanie da rovesciare, o tavoli, nei reparti psichiatrici?
  • con che coscienza si affidano pazienti psichiatrici a chi si è già dimostrato violento una volta? I pazienti psichiatrici sono deboli, delicati, ci vuole tutta la comprensione e la professionalità del mondo per gestirli. Come dovrebbe comportarsi un ospedale, in un caso del genere? Immagino varie soluzioni. La migliore, dal punto di vista politico: assegnare l'infermiere ad altro reparto, non sia mai che il caso in oggetto si dimostri tutt'altro che isolato. La peggiore, in realtà, considerando la faccenda nel complesso: un bel trasferimento in area meno problematica, una sorta di premio.
La vicenda, almeno per me, è di quelle scioccanti, che toccano la sensibilità e il cuore delle persone. Può fare notizia alla grande, se data in pasto ai mass media (strano che non sia stato fatto, piuttosto; o forse me la sono persa io). Va detto che il licenziamento di cui sopra risale a tempi in cui la parola stessa - licenziamento - era al limite del desueto; oggi, con il fiume delle persone che giornalmente viene espulso dalle Organizzazioni, magari in gambissima, e senz'altro a dispetto dei numeri sulla ripresa che circolano nei suddetti mass-media, la notizia ancora di più colpisce e stranisce.

Ma vorrei restare sul lato umano della questione, abbandonando quello lavorativo. Comunque sia andata, se fossi stata la mamma o moglie o sorella del paziente colpito, giudici o non giudici, avrei chiesto giustizia. Avrei fatto causa, organizzato un sit-in come ai vecchi tempi delle rivolte studentesche, non so: qualcosa.
Visto che di questa circostanza mi sono persa il lato mediatico (se c'è stato), non escludo che le suddette persone lo abbiano fatto a chiara voce.
 Il pensiero mi consola: loro, e il paziente, hanno tutta la mia solidarietà.

mercoledì 26 agosto 2015

QUESTO E' UN POST MOLTO SERIO



Questo è un post molto serio.

Ho lavorato in Acciaieria per 5 lunghi anni. Sporcandomi le mani in produzione e temprandomi con la sua durezza. Anche se è passato molto tempo, la sua lezione mi è ancora ben chiara.
Ho visto di persona almeno 3 incidenti gravissimi, e di altri, mortali, sono stata portata a conoscenza. Ho imparato moltissimo: dal punto di vista tecnico e umano. Ho condiviso difficoltà e alcuni successi. Ci ho cavato le gambe con onore.
Fino ad ora mi sono ritenuta fortunata: per una ragazzetta com'ero, quella è stata una ricca occasione per imparare; dura, ma necessaria a farmi crescere sullo stomaco quel pelo che mi ha aiutato negli anni a vivere senza troppi problemi il mondo del lavoro, e a tenermi sempre con i piedi ben in terra, con il senso delle proporzioni e della misura.

Adesso invece mi ritengo fortunatissima. Infatti sono in salute.

Perchè lo stesso, scopro, non è possibile dire di diversi dei miei ex colleghi, che anche più di me, hanno speso anni intensi, duri e magari poco gratificanti in quella stessa Acciaieria.
Lo scopro adesso, con raccapriccio. Con disgusto. Con un enorme senso di impotenza.

Inizio con F. Era uno dei miei. Un metallurgista esperto, poco più anziano di me, forse una decina di anni. Già da tempo è mancato: asbestosi. Per i non addetti: la malattia dell'amianto.
Continuo con P. Era diventato uno dei miei: un laminatore esperto, poco più anziano di me, probabilmente più giovane di F., ma anche così non fosse non importa. E' mancato pochi di mesi fa dopo due anni di sofferenze: un doppio tumore, al cervello e ai polmoni.
Finisco con B. Non era uno dei miei, ma un Soffiatore. Chi è del mestiere sa cosa vuol dire: addetto alla lavorazione primaria che trasforma la ghisa in acciaio (Convertitore). Anche lui, un tumore. In attesa di una cura sperimentale, non ha fatto in tempo a provarla.

Non sono i soli che hanno subito questa sorte.
L'elenco potrebbe continuare.

Non so in quale misura il lavoro in Acciaieria può aver influenzato le loro sorti. Nessuno ovviamente ha pensato a comunicarmelo, visto che io non sono nessuno e non ho nessun titolo. Però so di alcune persone che, presentando un'opportuna documentazione sullo stato di servizio, hanno ottenuto il pensionamento anticipato e sono riuscite ad avere vantaggi economici supplementari.
Persone ancora in salute.
Ciò mi fa pensare.

Il padre di una mia amica, ormai anziano ed ex operaio in quella stessa Acciaieria, ha penato per anni con tumori di vario tipo alla vescica, mai completamente risolti. Tuttavia è ancora vivo, pur nelle difficoltà. E grazie al cielo. Gli specialisti cui si è rivolto nel tempo glielo hanno detto chiaro: potrebbe entrarci il suo lavoro. Eccome.

Allora, io dico: vergogna. VERGOGNA.

Questo è un post molto serio. Lo ripeto.
E' dedicato a F., a P., a B., al padre della mia amica, e a tutti quelli che come loro hanno sofferto.
Io non sono nessuno ma di loro mi ricordo.

lunedì 27 luglio 2015

Spaccato di estate (con bollore)

 
Un po' come il sogno di una notte di mezza estate, di Shakespeariana memoria, ma molto di più.
Molto diverso in realtà.

Oggi parliamo di 'Job Description'. Qualcuno la chiama 'mansionario'.
E cominciamo con il chiederci a cosa serve.
  • Domanda: a cosa serve?
  • Risposta: a capire cosa serve.
  • Domanda: per far cosa?
  • Risposta: c'è scritto nella Job Description

 Ovviamente provocatorio, l'avvio di questo post. In realtà scherzoso.
La 'Job Description' - lo dice la parola - è la 'descrizione del posto di lavoro'.
A tutti i livelli.
Ci dice quali sono i requisiti necessari a ricoprirlo, il posto di lavoro, nonchè le responsabilità e attività che è chiamato a svolgere colui che lo ricopre.

Ricominciamo.
  • Domanda: a cosa serve la Job Description?
  • Risposta: a capire che cosa serve (per ricoprire la posizione descritta)
  • Domanda: per fare cosa (per svolgere quali compiti, per avere quali responsabilità?)
  • Risposta: c'è scritto nella Job Description (vedi sezione 'contenuti della posizione')

Bene. Adesso sappiamo di cosa stiamo parlando. 
Almeno a grandi linee.
Ma le domande non sono finite.
  • Domanda: e tu, Sandra, che c'entri con la Job Description? Mica sei delle Risorse Umane!
  • Risposta: ci mancherebbe altro. C'entro in quanto penso, lavoro, contribuisco a trovare soluzioni
  • Domanda: e in quale modo contribuisci, per quanto riguarda la Job Description?
  • Risposta: coinvolgendo i diretti interessati e i loro responsabili, nello scriverne di nuove e nel ranzare via qualche vecchio documento (sciatto, obsoleto) fatto ad uso e consumo di auditors o per altre situazioni una tantum. Nel convincere a mantenere la situazione sempre aggiornata. 

Adesso, un passetto in avanti.
 
Ricominciamo con le domande (diceva Eduardo: gli esami non finiscono mai):
  • Domanda: a cosa serve la Job Description?
  • Risposta: a misurare
  • Domanda (obiezione): eh no! Prima, per ben due volte, hai detto che serve " a capire cosa serve".
  • Risposta: vero. Ma adesso stiamo facendo un passetto in avanti e quindi le cose mutano, si arricchiscono, apparentemente deviano: serve a misurare. Anche.
  • Domanda: santa donna, a misurare cosa?
  • Risposta: quanto la persona X (Mario Rossi) è in linea con i requisiti della posizione. Allo scopo di individuare i gap e provvedere alla necessaria formazione (in aula, on the job, come vi pare e soprattutto come necessario)

Lo sento: un coro di "oooohhhhh" (chi cantava, qualche anno fa, che "i bambini fanno ohh"? ).
Qui entriamo in un campo minato; allungando un attimo la gittata, ci infiltriamo nel rischiosissimo campo della valutazione della performance del personale: su cui non mi soffermerò. Gli HR sono pagati per questo e hanno l'elmetto in dotazione. Io, avendo soltanto la penna, praticamente sto disarmata.

Adesso veniamo al dunque.
  • Domanda: dove ci vuole portare Sandra, in giornate così bollenti, con tutta questa popo' di introduzione?
  • Risposta: a qualche tempo fa. A qualche secolo fa (ma non molti). A una professione particolare.
Ritorno all'inizio:
  • siamo in estate
  • le aziende comunque continuano a funzionare
  • i cervelli ribollono nonostante l'aria condizionata (benedetta!) che attenta alle nostre gole.  
Il mio non fa eccezione. Continua ad elaborare ciò che vede e legge.
Ma con una vena leggermente alterata però.
Forse.

E quindi vi parla della figura professionale del boia.
 Avete capito bene: del boia.
Per come era intesa ai tempi della rivoluzione francese (1789) o giù di lì.
O meglio: intorno a quei tempi, a partire dall'alba del Medio Evo e per vari decenni ancora, direi un secolo e più. Finchè, almeno alle nostre latitudini supposte civilizzate, non è stata sostanzialmente rivista (abolita?).

Ed ecco la 'Job Description' del boia (dei "bei" tempi).
  • Scolarità richiesta: nessuna. Richiesta invece la provenienza familiare (i boia si tramandavano la professioni di padre in figlio, e si sposavano fra loro)
  • Esperienza richiesta: a giudizio del supervisore (training on the job praticato dal padre, con certificazione 'orale' del raggiunto livello di competenza - decideva lui e stop)
  • Contenuto della posizione
  1. manutenzione delle attrezzature (mica era un impiegato statale il boia di allora: erano sue la forca, le lame. In sostanza si trattava di un imprenditore, e quindi a lui spettava il compito di garantirne la perfetta funzionalità: l'affilatura, per esempio)
  2. primo pezzo valido - PPV (provare prima dell'esecuzione che la macchina fosse del tutto funzionante)
  3. evidenza del raggiungimento degli obiettivi (nel caso della ghigliottina, la testa mozzata veniva mostrata agli astanti)
  4. 5S (la pulizia del patibolo, la rimozione dei resti, erano a suo completo carico)
  • Compenso: non alto, e comunque sistematicamente corrisposto in modo che il committente (sperabilmente pubblico!), nella persona di colui che consegna materialmente in danaro, non avesse modo di toccare fisicamente il boia. Spesso il danaro veniva posto a terra, e da lì il boia lo raccoglieva. letteralmente: non sporcarsi le mani. Si trattava di un modo che faceva salvi tutti: il committente,che delegava a un "immondo" le azioni in realtà da lui stesso decise, e il boia stesso, abituato a sentirsi "immondo" (vedi punto 1: chi non era boia, con i boia non si imparentava. Erano i reietti).
Personaggi celebri che hanno svolto per anni, in maniera onorata, la professione: i signori Sanson. Un'impresa familiare (e non poteva essere altrimenti) prospera e rinomata.
Henri Sanson lasciò nel 1848 un libro di memorie, pubblicato da una casa editrice italiana solo nel 1925, con tutti i dettagli della professione; il quale in particolare si concentrava sull'operato nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione Francese.

Il nonno di Henri fu colui che raggiunse il picco di produttività nel quinquennio 1789 - 1794: oltre 2900 esecuzioni effettuate (fra cui quelle di Maria Antonietta e re Luigi). Un vero recordo, credo (spero) rimasto imbattuto.
Ma anche questa professione, ironia della sorte!, presentava i suoi pericoli. Un figlio del recordman, nel mostrare una testa mozzata, si sbilanciò e cadde, morendo.
Un infortunio sul lavoro su cui non si aprì alcuna indagine, nè si fece clamore.
Erano altri tempi. L'INAIL, la ASL, la Polizia Giudiziaria, erano di là da venire.

Ritornando al dunque.
  • Domanda: dove ci vuole portare Sandra, in giornate così bollenti, con tutta questa popo' di introduzione?
  • Risposta: non lo so di preciso. A riflettere. 
Buona estate bollente a tutti !


 

giovedì 25 giugno 2015

PROBABILMENTE DOVREI SCUSARMI..


 .. probabilmente sì.
Sono stata a lungo assente e per molto tempo non ho scritto.
Banale dire che non ho avuto un attimo di tempo, che la mia professione mi impone tour de force geografici e automobilistici non da poco: tutto verissimo.
Ma se uno decide di aprire un blog, poi deve essere coerente. E rispettare le cadenze, leggere i commenti, interagire.
Quindi, rimedio.

Intanto, eccomi qui di nuovo.
Con una riflessione riguardo la reputazione.
No, non la reputazione sul web, una volta tanto: la reputazione tout court, nella vita professionale giornaliera. Quella che si ha in azienda, per esempio, dove si passano ore e ore ogni giorno.
Mi capita di incontrare situazioni aziendali poco felici, da questo punto di vista. Con voci poco piacevoli che serpeggiano fra le scrivanie, e anche risolini.
Qualcuno, magari non troppo simpatico, magari non giovanissimo e neppure particolarmente prestante o rampante, diventa lo zimbello. Non gli si sconta un errore, e molto tende ad essere classificato come tale.
Oppure, la persona in questione parla e gli altri, che non lo capiscono, concludono che è un buono a nulla, uno che - questo ho sentito con le mie orecchie - " a mangiare il panettone non ci arriva" (buona anche la variante "colomba"). Invece poi costui ne divora alquanti, di panettoni o colombe o dolci tipici regionali.


Io, semplicemente, mi chiedo a chi giova questo atteggiamento generale. E anche come nasca, e come sia tollerato o non scoraggiato. Sempre di più, constato che questi atteggiamenti si incontrano nelle realtà meno avanzate, dove i problemi ci sono eppure ci si tende a convivere, non so se con rassegnazione o con incoscienza (probabilmente entrambe). Certo non è mia intenzione generalizzare e mi scuso sin da adesso se così sembra. Ma questa è una cosa che proprio non mi piace.

Trovo che oltretutto si tratti di un atteggiamento poco proficuo. Chiaro che nelle relazioni interpersonali il fattore umano, la sintonia e la simpatia siano fondamentali perchè le cose vadano bene; ma qui si parla di lavoro, e al lavoro bisogna pensare, cioè a fare ciò che serve perchè coloro che ci pagano continuino - o ritornino - a prosperare, e non altro. Al bar, a casa, con gli amici, si hanno altri atteggiamenti, ci si prendono confidenze, si fa quel che si vuole: ma al lavoro bisogna unirsi affinchè il lavoro - appunto - progredisca. Fare di una persona uno zimbello non va affatto in questa direzione; parlarne esplicitamente male quando non c'è, o riderne, o fargli velatamente il verso mentre non guarda, in una parola "screditarlo", è certamente una gran perdita di tempo, un'inefficienza significativa. Oltre che una grave mancanza di rispetto.


Scusate, ma io sono un essere semplice. Amici e partner ce li possiamo scegliere; i colleghi, non sempre. Bisogna trovare il verso di conviverci e di fare il nostro meglio per lavorare insieme. Chi non ci piace molto non sarà colui che ci accompagnerà la mattina della domenica nelle nostre escursioni in mountanbike, o chi inviteremo ogni pomeriggio a prendere il caffè alla macchinetta automatica: sarà quello a cui ci rivolgeremo con rispetto quando il lavoro lo richiede, e con cui avremo cordiali rapporti comunque. Senza per questo diventare amici per la pelle per forza.

Per me, la chiave è una sola: rispetto. Se ne mostriamo verso gli altri, gli altri ne mostreranno verso di noi, prima o dopo. E' una legge di natura.
E poi, mi dico: invece di indulgere in questi esercizi di piccineria, pensiamo a lavorare. Concentrati e positivi. Magari provando a capire il prossimo, invece di tranciare giudizi.
Lo so, può sembrare meno divertente; ma ne vale la pena.