venerdì 31 gennaio 2014

Business Process Improvement, case-study: il veterinario





Il mio cane ha un periodo critico per la salute; dopo 10 anni di eccellente spensieratezza, adesso accusa. E’ l’età, è un fatto naturale: non importa. Perché in ogni caso, ci vuole (e massiccio) l’intervento di un veterinario. Specializzato.

Mi addentro quindi nella sala d’aspetto dello studio: è gremita. Da gatti nel proprio trasportino, da cani grossi e piccoli al guinzaglio, e soprattutto da padroni ciarlieri. L’occasione fa sì che si generano spontanei scambi di opinione; mio malgrado, mi coinvolgono, e non riesco a tirarmene fuori, visto l’affollamento. Così, tra un commento e l’altro, tra una carezza, una tirata di guinzaglio, un ordine (“seduto!”) e l’altro, il tempo scorre e io rifletto. Sui casi umani, su quelli felini e massimamente sui canini, di mia diretta pertinenza; ma anche sui processi che lo studio veterinario in oggetto ha messo in atto. Deformazione professionale? It may be. Oppure esasperazione: fate voi. Sai com’è: tre ore di attesa ti guardano in faccia, come si dice dalle mie parti.

Innanzitutto, è sabato mattina. Gli astanti, in coro: ”E’ così il sabato, c’è da farci le quattro. Meno male che il dottore non ci manda via all’ora stabilita (le 13) e ci fa tutti”.
E’ sabato, c’è affollamento. Presumibilmente, perché molte persone al sabato non lavorano e quindi hanno tempo da dedicare alla salute del proprio animale. Il dottore lo sa (come potrebbe essere il contrario?), ma l’orario ufficiale è comunque più corto di quello degli altri giorni della settimana, in cui lo studio è aperto sia la mattina che il pomeriggio. Ho avuto occasione, qualche volta, di andare allo stesso studio anche in altri giorni: l’affluenza è di tutt’altra intensità. Il mio personale campionamento sarà scarsamente rappresentativo dal punto di vista statistico, ma fornisce indicazioni logiche su cui ragionare. Su cui lui e il suo studio – intendo – dovrebbero ragionare.
In sostanza, noto quanto segue:
·        l’organizzazione della ‘produzione’ (ovvero, l’erogazione del servizio) impostata, non è coerente con la domanda del cliente. Infatti, nei momenti di picco, in cui la domanda è elevata (sabato, ma anche sera inoltrata dei giorni infrasettimanali), le forze a disposizione per farvi fronte sono chiaramente sottodimensionate, mentre sono sovradimensionate alla grande nei momenti di domanda ‘standard’.
·        Lo studio veterinario non applica alcun levelling. Il personale è a disposizione lavora su turni standard, senza che però sia standard il carico di lavoro. Mi vengono in mente due esempi, in cui si è cercato di invogliare i potenziali clienti a non affluire in massa in certi giorni, allo scopo di ridurre i picchi e quindi avvicinarsi, in qualche modo, a un concetto di levelling:
o   l’esempio dell’IKEA, che applica prezzi notevolmente inferiori nei giorni infrasettimanali rispetto al fine settimana (in cui rimane comunque aperto); almeno, così era fino a qualche tempo fa. Non essendo una frequentatrice abituale, è possibile che siano intervenuti cambiamenti. Ma la cosa merita ugualmente attenzione.
o   l’esempio della Banca San Paolo (almeno, una certa filiale di cui è cliente mio padre: ma credo sia un approccio standardizzato), che ha messo il proprio personale a turno, risultando di fatto aperta, oltre che il pomeriggio dei giorni infrasettimanali, anche l’intero sabato
Con tutti i dovuti distinguo, anche questo studio veterinario potrebbe pensare ad ottimizzazione di questo tipo. Con beneficio del suo personale, nonché dei clienti. Urgenze a parte, voglio dire: queste hanno, devono avere un loro processo ad hoc (e ce l’hanno, a onor del vero: la disponibilità è massima).

Però, mentre il tempo scorre, man mano che la confidenza tra noi umani in attesa aumenta, scopro la storia del veterinario (sorprendentemente somigliante a Zapatero, l’ex premier spagnolo) e la fiducia che in lui ripongono i suoi pazienti (i loro padroni, cioè). Un’altra preziosa occasione di riflessione.
Una ragazza che ha un cane enorme, rosso con gli occhi blu (bellissimo), viene da quasi 50 Km di distanza: e viene perché solo di lui si fida. Mi racconta che in passato, il dr.Zapatero lavorava in un notissimo, storico studio veterinario della mia città; ne è fuoriuscito di recente, apprendo, a causa di dissapori non meglio precisati. La ragazza mi racconta gli sforzi fatti per rintracciarlo, una volta scoperto l’accaduto: è arrivata a farsi consegnare dall’ordine professionale dei veterinari l’elenco degli iscritti, e a chiamare uno per uno tutti quelli che avevano il suo stesso cognome. Non appena è riuscita nell’intento, ha abbandonato il notissimo, storico studio di cui sopra, i cui prezzi – mi sottolinea – tra l’altro erano diventati impossibili; i cui dottori, rincara, erano ancora più impossibili dei prezzi.
-          - Vedi - mi dice - io andavo lì perché volevo che fosse il dr.Zapatero ad occuparsi del mio cane; senza di lui, che ci andavo a fare?
Un tizio alto e dinoccolato che tiene sulle ginocchia un micro-gatto nel suo trasportino, si dichiara perfettamente d’accordo:
-         - Anch’io ho seguito lui – incalza – era lui che mi interessava. L’altro gatto me l’ha salvato in extremis, sembrava non ci fosse più nulla da fare. Uno così, quando lo incontri non lo molli più.
Nessuno, osservo, si lamenta dell’attesa. E tutti, noto, quando escono dalla porta dopo la visita, hanno la faccia soddisfatta. Grata, direi.
E questo quindi imparo, o confermo, nel mio sabato di attesa, nelle mie tre ore di passione:
·        fornire un servizio (o un prodotto) di qualità, a fronte di una concorrenza spietata, è un’arma di sicuro successo. Se il cliente si innamora del tuo prodotto (o servizio), può passare sopra anche ad altro. L’importante è che il livello sia e resti alto. E che il cliente senta sulla pelle quanto tu ‘lavori per lui’, condizione grazie alla quale può percepire un disagio (l’attesa di tre ore) come una necessità per ottenere qualcosa di buonissimo, se non eccezionale. E’ un po’ quello che accade ai ragazzi (e non solo) che fanno la fila per il tablet nuovo, o un nuovo smartphone: il sacrificio, ai loro occhi, vale la candela
·        abusare della propria reputazione, o pretendere di vivere di rendita ancorandosi al passato, è un fattore di sicuro insuccesso. Lo studio veterinario notissimo e storico in questione, evidentemente, ha commesso questo errore; oltretutto, credendo di poter andare fuori prezzo in virtù di una reputazione non più sostenuta dai fatti. Si sa: a costruirsi una reputazione si impiegano anni, a distruggerla ci vogliono pochi secondi. Io non ho mai avuto contatti con tale studio; ma è chiaro che, a seguito di quanto ho potuto ascoltare quel sabato mattina (vi risparmio i dettagli, ma erano tutti di vita vissuta, e non voci riportate), se per qualsiasi motivo dovessi cercarmi un nuovo veterinario, non è lì che mi affaccerei.
In buona sostanza, a dispetto di tutta la teoria masticata in materia di ottimizzazione ed efficientamento dei processi, rilevo che il primo, assoluto fattore importante per la prosperità del business è la soddisfazione del cliente, la capacità di fornirgli esattamente la qualità che vuole, la massima possibile. Il resto, se pur importante (perché lo è, importante), viene comunque dopo, e non è interscambiabile rispetto alla qualità. Nell’esempio in questione, un più celere ed organizzato servizio non potrebbe essere apprezzato in alcun modo, se la fiducia nel veterinario non fosse mantenuta dai fatti; non ci sarebbe velocità di trattamento o tempo cortissimo di attesa che tenga: prima la qualità del trattamento veterinario, poi tutto il resto. Certo, l’uno e l’altro insieme sarebbero il top. Ed è su questo, che il dr.Zapatero e il suo studio dovrebbero riflettere. Io penso.

Cito, infine, il caso di una clinica veterinaria di provincia, condotta da personale giovane, dinamico e con un ottimo fiuto per il business; mi pare che abbia seguito una linea ineccepibile per il lancio e la prosperità delle proprie attività, organizzandosi in modo efficace:
·        location: alle porte della città, ma in campagna. Laddove gli allevamenti di cavalli (e di altro) sono molti e la caccia ferve; via dal centro, diretti all’obiettivo, al cuore geografico del business
·        servizio al cliente: aperto dalle 9:00 alle 23:00, quando hai un problema corri e qualcuno ti assiste. Fanno visite ‘normali’, esami specialistici, pronto soccorso, day hospital fino a chiusura. Smaltiscono i pazienti a ritmo sostenuto: ho visto cani, semisbranati dai cinghiali, ricuciti e rimessi in piedi alla meglio in un baleno. La sera, dopo le 20:00, hanno giovani dottorini freschi di studi che consultano direttamente, per telefono, i colleghi più esperti in caso di difficoltà con i casi urgenti che arrivano.
·        dotazioni: le più sofisticate. Ma senza oneri di acquisto e ammortamento: si servono in subappalto di professionisti consorziati che hanno, sia macchinari, sia professionalità altamente specializzate, per cui sono in grado di utilizzarli e di interpretarne i risultati; e convenzioni con laboratori di analisi specialistici. In sostanza, pur evitando investimenti proibitivi, il servizio lo offrono, e puntuale.
·        professionalità: vedi sopra. Il veterinario specialista che ho avuto occasione di conoscere io, che sembrava un giovane rapper con tanto di brache calate e papalina di lana, è un brillante luminare nella sua materia. Così mi aveva annunciato il dr.Zapatero che mi ci ha spedito, così dicevano le persone che vi ho incontrato e persino i suoi colleghi veterinari in loco.
·        i prezzi per le prestazioni specialistiche sono elevati, ma non più di quanto lo siano quelli della concorrenza (ho verificato). Lo stesso si può dire per i prezzi delle prestazioni ‘standard’ (le visite, i vaccini): allineati con la concorrenza, salvo un minimo sovrapprezzo per il servizio prestato oltre le ore 20:00, che non si fa fatica a comprendere.
Questa clinica è sempre gremita; non solo al sabato: sempre. Ed è rinomata.
Io ne ho trovato sia la qualità che il servizio ottimi.
E come vedete, ne parlo. Le cose buone si promuovono un po’ anche da sé (il passaparola funziona).

domenica 5 gennaio 2014

Sofia,ma quanto mi costi? Nota a margine (per i coraggiosi)

Creare, gestire, rinforzare i Call Center, i Customer Care Center e tutto il resto, costa un sacco di soldi. E qual è l’obiettivo? Gestire (= cucinare) i Clienti Insoddisfatti, placarli ed arginarli. Quando? Quando scoppiano, quando hanno le balle girate e sono al limite. Quando vedono rosso.
Non è un po’ tardi?
E se è tardi, che ritorno avremo mai da questo investimento?
Nel best case il ROI è legato al 4% dei casi recuperati. Fate voi i conti, ognuno farà i propri. Se siamo fortunati e l'investimento rende al top, ci perdiamo SOLTANTO il 96% dei Clienti, il 4% lo salviamo in extremis.
Nel worst case, ovvero nel caso non siamo fortunati e l'investimento non renda affatto, il 4% dei Clienti che protestano sono andati per sempre. Quindi, ce li perdiamo tutti quanti, i Clienti. Al 100%.
La differenza tra best case e worst case vale 4%: è bene continuare a farlo notare.
Il plus nel quale speriamo investendo nel Customer Care è questo.
Magrino. E caro però. 

C’è qualcosa che non torna.
Vale la pena fare attenzione. E guardare le cose in modo diverso.

Innanzitutto, svegliamoci. Sia 4 che 96 sono PERCENTUALI. Il valore numerico corrispondente cambia a seconda del numero al quale sono applicate. Per esempio:
- il 4% di 100 è 4 mentre il 4% di 10,000 è 400
- il 96% di 100 è 96 mentre il 96% di 10,000 è 9,600
Se i Clienti contestano 100 prodotti, è una cosa; se invece contestano 10,000 prodotti è un'altra.
Quindi: lavoriamo sulla riduzione del numero dei prodotti contestati, miglioriamoli dal punto di vista della progettazione, del processo; facciamo un restyling mirato che dia al mercato l’immagine di novità e freschezza. E liberiamoci dei pesi morti.
Pesi morti? ORRORE! 
Sì, pesi morti. Lo sottoscrivo. Se è vero come è vero che adesso il paradigma 80/20 (*) è superato, se è vero quindi che i prodotti hanno la coda lunga (le spicciolate sono importanti), teniamo ben presenti i rischi a cui andiamo incontro con i centesimi di Euro che popolano il fine-coda. La legge 96%-4% non perdona neppure loro. I fine-coda tendono ad essere prodotti su cui non si investe in manutenzione, restyling, upgrade. Se ne vendono pochi, non conviene. Ma possono essere numericamente pesanti: tante spine nel fianco, tanti fattori di disturbo che amplificano la legge 96%-4%. Quindi: consideriamo attentamente i prodotti ormai vecchi a cui ci siamo affezionati perchè ci fanno un pochino di fatturato in più: la coda estrema. Facciamone un'analisi critica: tecnica e commerciale. E se del caso, prendiamo il coraggio a due mani: eliminiamoli. Pensando però, fattivamente, a sostituirli con altro che rimpiazzi, e possibilmente superi, il fatturato perduto. Manteniamo lo sguardo puntato in avanti.

Poi: cominciamo a ragionare sui problemi che ci vengono segnalati dal mercato. Dai bravi, coscienziosi e un po' bonaccioni 4% (come me). Ci vuole un atto di fiducia: dire sì, ha contestato solo il 4%, ma il 4% è un campione significativo di quanto il mercato pensa dei nostri prodotti. Quindi, le sue indicazioni hanno valore. Sono una base di lavoro.
E da lì, lancia in resta, avanti a tutta birra, guidati dalla volontà di rimetterci in carreggiata, o di restarci ben saldi, vento in poppa. Con le priorità corrette, seguendo la logica di Pareto(*), aggrediamo i best sellers. Nella cui identificazione però – attenzione! - è sano evidenziare i volumi di vendita a fianco dei fatturati realizzati: c'è l'effetto virale della difettosità da considerare, oltre agli aspetti economici e al margine. Non trascuriamo questi dati, il rischio è il peccato di leggerezza: non centrare il punto focale.

Nel migliorare i nostri prodotti, o nel farne di nuovi di pacca, stiamo ben attenti alla flessibilità che richiede il mercato. Alla necessità di personalizzazione che il Cliente spesso mostra. E prepariamoci in modo da servirlo nel coscio. Ma non attorcigliamoci in processi ingestibili: puntiamo sulla modularità. Ben studiata, può consentire un alto tasso di personalizzazione senza che ciò implichi riprogettazioni ad hoc e rivoluzioni continue in produzione. Facciamo sì che le reali necessità di progettazione ex-novo 'estemporanee' siano ridotte al minimo; anticipiamole, se possibile, mantenendo costantemente occhi e orecchie aperti, e sviluppando un’aderenza empatica verso il Cliente. Guidiamole, invece di rimanerne in qualche modo vittime; gestiamole noi.
A tal proposito, cito il caso dello scooter Django, lanciato sul mercato dalla Peugeot a sfidare la Vespa.
Guardatelo, come è carino, con questa estetica retrò: e non crediate che lo dica senza dolore, visto il mio amore antico per la Vespa (che ho ceduto da poco) e i miei anni passati a lavorare in Piaggio. Tra le tante cose, mi ha colpito l’altissima possibilità di da parte del cliente: tramite il configuratore Django ID, che permette di personalizzare e di fare fabbricare il proprio Django su misura (à la carte) da PC, la scelta è di fatto tra 178mila versioni diverse. Non credo sia un caso isolato, ma certo è un caso notevole. Sapendo per esperienza personale quanto la complessità del prodotto e delle sue versioni sia un vincolo, una sfida, e potenzialmente una tragedia per chi progetta e per chi produce, la questione mi incuriosisce. Offrire una tale varietà senza soccombere, senza rincorrere in affanno un Cliente-chimera che non è mai soddisfatto (perchè non arrivi quando lo vuole lui ma dopo, con calma; oppure perchè ci arrivi male, in scivolata, e gli fai in realtà un mezzo servizio), non è affatto cosa da poco. C’è da prendere nota e studiare.

Quindi: va bene il Customer Care. Se il 4% protesta, qualcuno che lo ascolti ci deve essere. Ma attenzione a non dedicare tutti gli sforzi economici nella costruzione di un Customer Care potente, dirottandovi risorse che si dovrebbero dedicare alla risoluzione dei problemi progettuali ed operativi. Si può incorrere nell'errore di considerare il Customer Care come una panacea: la probabilità che si cada vittima di questa illusione è tanto maggiore quanto minore è il senso di coesione degli attori aziendali, ovvero tanto meno a sé ciascuno di loro è avvezzo a pensare.
E qui torniamo a uno dei miti dei tempi nostri: il Team. Sì, proprio lui. Perchè è quello il luogo mentale - spesso ideale - in cui si converge verso un obiettivo che è la salute, il benessere dell'Azienda, e non il successo personale. Non si tratta di perseguire l’ideale Francescano dell’annullamento dell’individuo a favore del prossimo: si tratta di tararsi su una finalità pratica, sociale – e vera però: il benessere della comunità aziendale, dipendente dal fatto che l’Azienda sanamente faccia utili e sanamente prosperi, e altrettanto sanamente investa, rispettando e valorizzando i propri dipendenti per il modo in cui collaborano al suo successo (e fra di loro). Nel Team ognuno fa la propria parte: il valore dell’individuo non viene sminuito, ma piuttosto evidenziato. Nella sua qualità più notevole: la capacità di dare il meglio per la comunità in cui è inserito (in questo caso, l’Azienda) ai fini della propria e altrui serenità. Ricordiamoci che lavorare è una parte del vivere, peraltro non temporalmente secondaria: richiede civiltà, consapevolezza e senso della comunità proprio in quanto tale. Tutto il resto, è altro. Che ciascuno catalogherà come vuole.


 (*) il paradigma 80/20 recita così: "l'80% del fatturato si fa con il 20% dei prodotti". Ne esistono le più diverse varianti, nelle quali le parole ‘fatturato’ e ‘prodotti’ sono sostituite ad hoc, al fine di esprimere altre situazioni (es. “spesa d’acquisto – Fornitori”, oppure “problemi di qualità – cause”): il concetto non cambia. Pochi elementi (i cosiddetti vital-few) determinano, influenzano un certo fenomeno, questa è la tesi: se si capisce quali, facilmente si può ottenere che il fenomeno viri nella direzione che desideriamo puntando su di loro.
Se ne fa largo uso nella Statistica applicata ai grandi numeri, e nei più vari campi. Fu sviluppato da Vilfredo Pareto, un'eccellenza italiana dell'8-900, ed ha avuto un'enorme diffusione. Anche grazie alla ciliegina sulla torta che ci mise Mr.Juran, con il quale i "Quality Pratictioners" certo sono di casa: il cosiddetto "Diagramma di Pareto", un tipo particolare di istogramma, in cui le barre sono ordinate in maniera decrescente, proprio a segnalare i suddetti ‘vital-few’.

NB: il disegno del dinosauro verde è stato estratto da un'interessante brochure ricevuta dal Kaizen Institute Italia